Da qualche giorno non si giocava più a dama sotto il glicine del bar di ‘Ntonuzzu. Si stava svolgendo la sfida tra Spassky e Fischer, per il titolo mondiale di scacchi, e un po’ dovunque si era risvegliato l’interesse per quel gioco. Così Francuccio aveva tirato fuori dal baule i vecchi “pezzi” di plastica ed ora affrontava Nanduccio in interminabili partite. I pezzi Bianchi avevano la base azzurra ed i Neri la base rossa. Si erano conservati abbastanza bene tranne un cavallo che si era spezzato a metà e costringeva i Bianchi a giocare con un cavallo arabo ed… un pony.

Il nuovo gioco aveva fatto storcere il naso a più di uno spettatore abituale che, non gradendo quei papazzeddhi (pupazzetti)che sulla damiera avevano sostituito le pedine, aveva rivolto la propria attenzione ai giocatori di Tressette. Chi invece si dimostrò entusiasta fu il Colonnello Mucci. Stivaloni, pantaloni alla zuava, giacca militare, binocolo, tascapane e borraccia a tracolla, stava ritornando dalla campagna.

«Oh!!!», esclamò, «Bravi, bravi! Non sapevo che anche a Bova ci fossero conoscitori di questo antico e nobile gioco.»

E si avvicinò per dare uno sguardo da intenditore. E non poteva essere diversamente visto che si intendeva un po’ di tutto. Personalità eclettica, versato in molteplici discipline, conoscitore di tre o quattro lingue (oltre il grecanico), archeologo autodidatta, ottimo schermidore, era pure un più che buono giocatore di scacchi. Maniaco dell’ordine e della simmetria, non sopportò la vista di quel cavallo mozzo.

«Date a me. Ci penso io! So come fare.»

E raccontò come durante la prigionia avesse intagliato nel legno tutti e 32 i pezzi. L’unica difficoltà l’ebbe coi due Re e le due Regine: non riuscendo ad intagliare sulla corona la piccola croce che li distingue. Si arrangiò lo stesso, però, differenziandoli, diciamo così… anatomicamente. Dopo di che, si avviò alla bottega del falegname Mastro Mico, che era a due passi, portando con sé il cavallo che, sulla scacchiera, fu poco decorosamente sostituito da un tappo di birra Peroni.

Di lì a dieci minuti, tornò trionfante tenendo teso innanzi a sé il cavallo riparato quasi fosse Bucefalo e lui ne reggesse le redini cavalcandolo. Intanto Francuccio, che era un forte analizzatore, stava scuotendo sconsolatamente la testa: si era accorto che la posizione era insostenibile e la partita irrimediabilmente persa. Era solo questione di tempo.

«Possiamo iniziare un’altra partita: questa ormai è persa!»

«E chi lo dice?!» tuonò alle sue spalle il Colonnello, a cui quella resa senza combattere sembrava ignominiosa. «Alzati da qui!», gli intimò. E ne prese il posto risoluto ad immolare, se necessario, tutti suoi pezzi sino all’ultimo pedone prima di accettare la disfatta. Diaz aveva sostituito Cadorna! Il Colonnello assunse il comando delle operazioni. Davanti a lui non c’era più un pezzo di tavola 45×45 ma le pietraie del Carso con trincee e reticolati, l’Isonzo, il Piave. Non passa lo straniero!

L’azzurro alla base dei suoi pezzi gli ricordava l’azzurro di Casa Savoia e si impegnava nel gioco con caparbietà quasi che vincendo potesse far rientrare Re Umberto dall’esilio di Cascais. Avanti Savoia! Ma anche Nanduccio non era da meno: stava giocando con impegno e difendeva il suo vantaggio con accortezza. Ad un certo punto, dopo lunga riflessione, il Colonnello mosse con decisione la Regina, mangiò un pezzo e diede scacco.

«Scacco al Re!», tuonò e, compiaciuto dello sbalordimento generale, alzò la testa con fierezza ed esclamò soddisfatto: «Bella mossa!!!».

E Nanduccio, con la sua garbata ironia: «Non discuto, Colonnello, la mossa sarà senz’altro bella… ma l’Alfiere che avete mangiato… è quello vostro!».

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