Chi ha la mia età lo ricorda ormai vecchio, con voce e corpo tremanti, disponibile a stimare soltanto i tempi futuri profetizzando: «Li guai su’ grandi e lu peju è arretu!». Ma non c’erano stimatori come lo zz’u Ninu Dittureddhi. Specialmente per le olive. Girava attorno alla livara e guardava e scrutava le olive che pareva volesse contarle sui rami ad una ad una. Le pesava con gli occhi. Si rivolgeva poi al proprietario ansioso, che sembrava aspettasse l’oracolo, e sentenziava: «Porta… tante macine!»; e tante ne portava: né una di più né una di meno. Neanche avesse parlato l’Arcangelo. Ma non solo con le olive, pure con le ghiande, arance e fichi d’india ci azzeccava. Solo col vino sbagliava stima. No, non nel senso che diceva: «Questa vigna porta dodici carrichi» e poi quella ne portava dieci. Nel senso che diceva: «Stasera non bevo più di due bicchieri» e poi ne beveva quattro… quattro litri. Ma non c’era da preoccuparsi: lo teneva bene il vino. Come, del resto, tutti i bevitori a Bova.

Certo… purché non si esagerasse. Come Don Tittino che ogni tanto, per scommessa, si scolava una menzaneddha (8 litri) o lo zz’u Ninu Muscia che una volta, da Cavaddhuzzu, bevve 17 menzilitri e rimase poi quattr’ore appoggiato contro il muro del Santuario di San Leo, dritto e bianco in faccia che sembrava una candela dimenticata, e salutava con gli occhi ché se diceva «Buona sera» il vino gli usciva dalla bocca e se faceva cenno col capo gli usciva dal naso. Certo, intociati a quel modo, era difficile il rientro a casa. C’era chi al primo scivolone neanche tentava di alzarsi e, estate o inverno, acqua o vento, restava là sdraiato tutta la nottata e si alzava la mattina dopo fresco e riposato neanche avesse dormito all’albergo di Margherituzza. C’era chi passava la notte fuori, ma appoggiato ad un portone ché se si sdraiava vomitava il vino ed era peccato buttare la grazia di Dio. E c’erano quei due compari che, dopo ogni pionica

  • Eh no, che non vi lascio andare da solo …!
  • Voi mi avete accompagnato, ora vi accompagno io …!
  • Torno con voi ché mi pare brutto …!
  • Ora tocca a me sinnò fazzu malucori …!

Si accompagnavano a vicenda da Cuveddhu a Santu Petru e da Santu Petru a Cuveddhu sino alle mattinate.

C’era chi, invece di rientrare a casa, si faceva accompagnare alla casetta di campagna e la notte la faceva giorno cantando arie di opere liriche. E c’era compare Bruno che se si riusciva a metterlo in groppa all’asino poi quella brava bestia ci pensava lei. Se compare Bruno rischiava di cadere cominciando a pendere a destra o a sinistra, a destra o a sinistra si spostava l’asino, neanche fosse stato un cristiano, e con un colpo di reni lo rimetteva in equilibrio e così continuava finché non lo riportava sano e salvo a Brigha, proprio davanti alla porta di casa.

Per rientrare a casa sua, a Santu Roccu, quando aveva bevuto, lo zz’u Ninu Dittureddhi faceva, con la sua solita flemma, il giro largo dallo stradone. E proprio lungo quello stradone, una sera, mentre un acquazzone improvviso costringeva la gente ad un fuggi-fuggi scomposto in cerca di riparo, lo zz’u Franciscu, che per flemma non scherzava manco lui, alticcio com’era e senza neanche allungare il passo, alzò gli occhi al cielo e disse: «Tempu, lu gustu mi mi bagni ti po’ pigghjari, mi mi fai curreri NO!».

Compare Mico, invece, non rientrava dallo stradone. Lucido o alticcio, faceva sempre la ripida discesa dell’Arco della Piazza, incurante del pericolo. E riuscì sempre a farla senza inconvenienti. Tranne una volta… ma non per colpa sua. Stava tornando a casa e fu centrato in pieno da una lavamanata d’acqua che cugina Lina, per non perdere di vista il piccolo Mimmo, aveva sbrigativamente buttato fuori dalla finestra. Un incidente frequente, per la verità, quando mancavano le fognature. Anzi, a prim’alba, poteva capitare di peggio e sentirsi piovere addosso il contenuto di qualche zz’u Peppi, l’orinale.

«Gésu! E ora chi si mette con compare Mico?» esclamò cugina Lina, mortificata per l’accaduto e seriamente preoccupata dalla temuta reazione dell’uomo. Ma la reazione di compare Mico fu, per la verità, molto pacifica e civile. Fradicio d’acqua e fradicio di vino, bussò alla porta e alla donna che, sinceramente dispiaciuta, non sapeva come scusarsi, disse pacatamente: «E cercate di fare un po’ più di attenzione, Lina, santudià! Per fortuna avete preso me… e s’eravu pigghjatu nu mbriacu…?».

La giacca inzuppata fu sostituita con una del suocero di cugina Lina. Ma era di tre taglie più piccola e non poteva né abbottonarla né abbassare le braccia e così compare Mico se ne andò via ondeggiante e a braccia tese che sembrava un equilibrista sul filo. Ma incidenti veri e propri, dicevamo, non ne ebbe mai ché della discesa dell’Arco della Piazza conosceva ad una ad una tutte le pietre della nsilicata. E sì che allora non era protetta dalla sicura ringhiera che c’è oggi.

Compare Mico, zigzagando, arrivava tre-quattro volte sul ciglio, pencolava sul vuoto e, quando ormai sembrava perso, ripiegava verso il muro del Barone. Compare Ciccantoni, seduto sulla roccia sotto l’Arco, una volta commentò sconsolato: «Una sera di queste ci toccherà raccoglierlo nell’orto di Velonà!». Toccò raccoglierlo, invece, nell’orto dello zz’u Roccu Burrellu.

Era successo che una sera, dopo aver a lungo bevuto da ‘Ntonuzzu, era passato nel reparto alimentari ed aveva acquistato un sacco di patate. Per accorciare un po’ la strada e non per non passare dalla piazza col sacco in spalla, decise di rientrare dalla Punti. Finché ci furono muri contro cui andare a sbattere, tutto andò bene ma quando, dopo la stalla dello zz’u Roccu, la strada rimase senza protezione, compare Mico riuscì a fare soltanto qualche passo e poi, sbilanciato dal fardello che aveva in spalla, rovinò nell’orto sottostante. Cadde, e qui è proprio il caso di dirlo, come un sacco di patate. Il sacco di patate (quello vero) si lacerò tutto ed il contenuto si sparse tutt’attorno. Cugina Micuzza e comare Caliddea lo videro dal balcone e cacciarono un urlo. Uno spiritoso, laggiù da Tamburino, gli gridò: «Chi fu, cumpari Micu? Volivavu jiri di lu curtu?».

La gente si precipitò in strada per aiutarlo. Ma compare Mico, la fronte spaccata e la faccia imbrattata di sangue, faceva segno di no con le mani e con la testa rifiutando sdegnosamente ogni aiuto. Allargò gambe e braccia per difendere la maggior porzione di terreno possibile ed urlò: «Nuddhu mi tocca na patata!».

Francesco Borrello