RIPROPOSIZIONE POSTUMA dalla Rubrica Europa Ellenofona  a cura di Filippo Violi (17.03.2016)

 Il “rinsanguamento” bizantino, così come la dominazione latina, avevano lasciato i segni di un non corto respiro, ma non al punto di intaccare il sostrato magnogreco. Conseguentemente, pur sempre censurati, la lingua e i costumi dei Greci di Calabria, resistevano arroccati su quei monti inaccessibili, ormai sempre più periferici e sempre più  dimenticati da Dio e dagli uomini , dopo duemila anni di dominazioni e di governi diversi.

Ma cerchiamo ora di scoprire i primi segni e gli inizi della letteratura grecanica, che fin da subito si rivela ossuta e derivata storicamente dalla terra. Possiamo intanto convenire con il Longo [1] che l’ultimo testo scritto in lingua greca di Calabria, con caratteri greci, nella zona della Bovesia, sia stato  l’anatema lanciato dal prete Coluccio Garino nel novembre del 1572 contro fra’ Giulio Stauriano e i notabili bovesi per aver provocato la “morte” del rito greco in Bova:

«Nel mese di novembre, il 23, 1572, nel tempo comune del traiano vasileus re Filippo e dell’arcivescovo di Reggio Gaspare di Fossa e del venerabilissimo vescovo  di  Bova Savariano della  città di Cipri, volle cacciare l’episcopato   e lo cacciò e scagliò via le sacre reliquie  del santo apostolo Andrea e le altre dei Santi e fece una congiura insieme al sindaco della cittàdi Bova di nome messer Ferranti Flocari e l’altro messer Nino Marino per fare il vescovato latino e lo fece nel tempo del protopapa Cicu Siviglia [2]  e del venerabilissimo dittereo abate fra’ Pizzi Dasculla e del venerabilissimo arcidiacono abate Antonino Marino e del venerabilissimo cantore Tuscanu e del venerabilissimo tesoriere abate Luca Evlaviti, abate Nino Garino e degli  altri diaconi, di nome: diacono Antonio Versaci,   diacono Luca Meglaviti, e gli altri diaconi 15  e tutti abbiano, quelli che diedero consiglio perché diventasse latino, che abbiano la maledizione dei trecento 18 santi padri.  Io abate Colucci Garino Tesoriere della chiesa  maggiore di Bova scrissi di mia mano, pregate e non maledite».

Questo il testo dell’anatema, redatto in greco insieme a qualche espressione del volgare calabrese – riportato nella versione integrale nella parte antologica nel volume della Letteratura del Violi – che lanciò l’abate Garino. Il testo lo ritroviamo nel codice Barberino gr. 535, Biblioteca Apostolica Vaticana, ai ff. 182 v-183r. Ebbene, da quel momento in poi, ci si sarebbe serviti solo della lingua parlata, e dei caratteri latini per dare voce alla lingua greca e alla sua futura trasmissione scritta.

 I  PRIMI TESTI GRECANICI IN CARATTERI LATINI

Non esistono prove certe prima di allora, quindi, di scritti dell’attuale linguaggio grecanico in caratteri latini, almeno che non si voglia prendere in considerazione quello che Franco Mosino[3]  ha definito, il più antico testo grecanico della Calabria e cioè l’epigrafe sepolcrale di Fabia Sperata e di Sallustio Agatocle, ritrovata a Reggio Calabria nel Seicento e riconducibile all’età imperiale e di cui riportiamo il testo nella parte antologica. Il testo, redatto in caratteri latini e greci, costituisce il più antico documento della lingua greca popolare. Evidentemente i due, hanno voluto che la loro lapide fosse trascritta in quei caratteri, perché tutti la comprendessero, essendo quella la lingua più in uso in quel tempo nella Calabria reggina.

Volendo comunque fare riferimento ad un testo conosciuto in tutta l’area grecanica, ma con poca fortuna, così come in Grecia, dobbiamo rifarci al canto della “Romeopùlla” (La ragazza greca) cui possiamo facilmente attribuire una data. Questo canto però, come vedremo, è completamente estraneo alla tradizione linguistica bovese, ed è giunto fino a noi dopo l’invasione turca della Grecia, con l’arrivo di alcuni profughi nella Bovesìa, quali la famiglia Marzano. Anzi si presume che sia stata propria questa famiglia a portarlo a Bova.  Del testo in questione si sono serviti molti studiosi per cercare di dimostrare che la lingua greca di Calabria era riferibile ad un periodo più recente di quello che gli aveva attribuito il Rohlfs. Ora non è qui il caso di discutere di questa questione, ma non possiamo esimerci da alcune considerazioni, proprio perché nel canto ritroviamo sia vocaboli che gruppi consonantici estranei alla nostra tradizione linguistica:

 a) intanto c’è da segnalare la presenza nel canto della «Romeopùlla» del verso decapentasillabo (considerato un verso politico), mai presente nei canti grecanici, che dimostrerebbe esattamente il contrario di quello sostenuto dai fautori della teoria moderna;

 b) nel canto vi sono pochissime parole di origine romanza e la cacuminale calabro-sicula ” ddh ” è riportata invece con il doppio ““;

 c) il canto che, come dicevamo, è conosciuto in Grecia, fu raccolto dall’Ulrichus, dal Ross e dal Tommaseo e poi riprodotto nella raccolta del Passow col titolo ” I Romeòpula – Rumeli ” e “I Romeòpula – Zakìntos “, e contiene tutta una serie di vocaboli sconosciuti o non usati nell’area grecanica. Il testo è stato pubblicato, con delle varianti, da D. Comparetti, da A. Pellegrini ( che lo aveva avuto da G. Viola) e successivamente, nel 1929,  da P. Larizza che, stranamente, lo crede inedito.

   Da questo momento in poi, e per qualche tempo, la produzione poetica e la novellistica dei Greci di Calabria diventa solo “testimonianza orale del tempo”, legata soprattutto ad un certo tipo di realtà sociale, prettamente agricola e pastorale, che serve a tramandare solamente le narrazioni e quei canti destinati a una cerchia ristretta e popolare di ascoltatori. Non siamo in grado di segnalare la datazione certa di altre produzioni poetiche, se non di quelle del sindaco di Bova, Antonio Francesco De Marco, che, in calce alle sue composizioni, ebbe a trascrivere la data della loro stesura ( 1690 -1699), e quelle del medico ed umanista Vincenzo Mesiani, nato a Bova nel 1777, rintracciate da me. Solamente dall’Ottocento in poi assisteremo ad una nuova fioritura letteraria, particolarmente storica, relativa all’origine dei nostri paesi, che denuncerà però le ormai mutate condizioni sociali, economiche e culturali di gran parte della popolazione greca di Calabria.

Nonostante tutto però oggi possiamo tranquillamente affermare che non tutti i segmenti della civiltà grecanica sono scomparsi, poiché la lingua continua a sopravvivere, pur se in semi sparsi, nei piccoli paesi della vallata dell’Amendolea e in tutta la Bovesia.

BIBLIOGRAFIA

A. Piromalli, La letteratura calabrese, La Spirale, Guida, Napoli, 1977; G. Boccaccio, De Genealogiis; G. Errante, Il cambiamento dal rito greco al rito latino nel territorio di Bova, <>, RC, 1984, n.25-26; C. Longo, Un momento della lenta eutanasia della grecità calabrese, I.S.D., Roma, 1988; Codice Barberino greco, 535, Biblioteca Apostolica Vaticana, ff. 182 v-183 r; F.Mosino, Storia linguistica della Calabria, Marra, Cosenza, vol.I,II, 1987,1989; idem, Il più antico testo grecanico della Calabria, <>, XXII, 1980;D. Comparetti, Saggi dei dialetti greci dell’Italia Meridionale, Pisa, Forni, 1866; A.Pellegrini, Il dialetto greco-calabro di Bova, Forni, Bologna, 1880; P.Larizza, La Magna Grecia, Roma, Loescher, 1929; F. Violi, Storia degli studi e della letteratura popolare grecanica, C.S.E. Bova, Reggio Cal.,1992; F. Violi, Anastasi: canti politici e sociali dei Greci di Calabria, C.S.E. “I Riza”, 1990.


[1] C. Longo, Un momento della lenta eutanasia della grecità calabrese, I.S.D. Roma, 1988, p.49

[2] Da allora in poi i suoi discendenti saranno chiamati con l’epiteto di “Giuda”.

[3] Franco Mosino, Il più antico testo grecanico della Calabria,  Klearchos,  XXII,  1980, pp. 111-115

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foto Elio Cotronei