Il Vescovo, era chiaro, votava Democrazia Cristiana. I preti e le suore pure e, ora che si stavano avvicinando le elezioni, facevano anche una cauta propaganda elettorale. Era ovvio che cercassero di far votare per la Croce. Beh, non proprio per la Croce… per lo Scudo Crociato. Infatti era questo il simbolo della Democrazia Cristiana. Un astutissimo imbroglio frutto di menti sottili quali in quel partito non sono mai mancate.

La legge impedisce che nei simboli elettorali vi siano richiami di natura religiosa ed allora ecco aggirato il divieto facendo entrare il simbolo della Croce dentro il cavallo di Troia dello Scudo Crociato. In più, sul braccio orizzontale della Croce, campeggiava la scritta “LIBERTAS”. Una scritta in latino, la lingua della Chiesa, tanto per non lasciare dubbi. E dubbi non ce n’erano come dimostra il fatto che il popolino raramente diceva “voto Democrazia Cristiana” o “voto per la DC” diceva in genere “votu pe’ la Cruci”. Sicuramente nessuno diceva “voto Scudo Crociato” quasi si fosse inconsciamente percepita la pretestuosità di quel simbolo.

Quel simbolo però ricorreva spesso nelle similitudini dei sostenitori della DC. E così come era stato baluardo contro le orde islamiche, così ora, lo Scudo Crociato, doveva arginare le orde comuniste. Orde…? orde! Sì, orde barbariche vere e proprie perché, si sapeva per certo, i comunisti (non tutti per fortuna) erano dei maledetti scomunicati che mangiavano i bambini. Quindi primo: votare DC! Secondo: se non si votava DC, almeno non votare quei senza Dio dei comunisti. E neanche i socialisti, malecarni anche loro, ma che almeno i bambini non li mangiavano.

In questa propaganda si distingueva Don Giorgio che, senza le tante cautele dei suoi confratelli, anzi spregiudicatamente, invitava a votare o per Cristo, simboleggiato dalla Croce democristiana, o per l’ardente Sacro Cuore della Vergine, simboleggiato dalla fiamma missina e chiaramente indicato dalla sigla “MSI” che stava per Maria Santissima Immacolata!

La campagna elettorale era spumeggiante e non mancavano gli sfottò reciproci.

Mastro Pasqualino aveva anticipato di parecchi anni la moda dei poster e nella sua bottega di falegname campeggiavano alcuni manifesti elettorali tra cui attirava subito l’attenzione uno in cui una DC coi pantaloni abbassati scappava a gambe levate per evitare la puntura del medico comunista.

Anche i comizi erano briosi e gli oratori brillanti e appassionati non come quelle mezze cartucce senza cuore e senza voce che sarebbero venute appresso.

Quella sera c’era il comizio della Democrazia Cristiana con un valente oratore salito a Bova da Reggio. Un oratore di consumata esperienza, frutto di tanti anni di milizia nel partito. Tanti anni di milizia nella DC, sì, ma anche tanti anni di “Milizia” e basta, quella delle “camicie nere” per intenderci. Era stato infatti un fervente fascista sempre pronto a battere i tacchi e salutare romanamente ruggendo Eia, Eia! Alalà!

Ora, come tanti in quel partito, si proclamava antifascista della prima ora e da “Giovinezza” era passato a cantare “O bianco fiore”. 

I comizi però li sapeva fare e, in occasione delle elezioni, girava tutta la provincia a dare il suo contributo alla causa. Sapeva interessare l’uditorio, avvincere la folla, strappare gli applausi. E, immancabilmente, chiudeva la concione con un richiamo all’epopea crociata e alle gesta gloriose di chi aveva imbracciato quello scudo, ora simbolo della DC.

La voce dell’oratore, amplificata dall’altoparlante, il Vescovo l’ascoltava da dietro le tende delle finestre dell’Episcopio ché, se era impensabile recarsi in piazza, era comunque inopportuno anche soltanto farsi vedere affacciato al balcone.

L’oratore si avviava alla consueta chiusura finale:

  • “Dio lo vuole! Dio lo vuole!” ripeto anch’io con Pietro l’Eremita. Anch’io come Pietro l’Eremita lancio il mio appello e mi aspetto la vostra fervente adesione. Sono tempi difficili per la fede, insidiata da una subdola minaccia, ed ognuno di voi è chiamato a dare il suo contributo alla battaglia contro l’ateismo strisciante tracciando una croce su quell’altra Croce impressa sullo scudo. Non uno scudo qualunque ma il glorioso Scudo Crociato! Quello stesso scudo imbracciato da Goffredo di Buglione!

Goffredo di Buglione, colui che il Tasso chiama “il capitano che ‘l gran sepolcro liberò di Cristo”.  Eh sì, perché quando la Terra Santa era oppressa dal giogo degli infedeli, chi fu a liberare il Santo Sepolcro? Chi fu a liberare il Sepolcro di Cristo? Chi fu? Chi fu? Cu fu ddhu cornutu?!

Il Vescovo non credeva alle proprie orecchie… Quel cornutu giunto fin lassù all’Episcopio assieme alle risate della piazza lo aveva lasciato allibito.

Passato il primo attimo di sbigottimento, mandò il segretario di corsa in piazza a chiedere conto all’oratore e lui cominciò a buttar giù la minuta di una vibrante lettera ai vertici della DC, dove vantava alcune importanti conoscenze. Quell’insolente andava deferito ai probiviri e sbattuto fuori a calci dal partito.

Arrivato in piazza, il segretario incontrò Remigio, il sacrestano, e quello gli spiegò per filo e per segno come erano andate le cose. Era tutta colpa di Peppineddhu, la pecora nera del paese,uno scapestrato che entrava e usciva dalla Casa di Correzione, e quella povera mamma la strada per il “Malaspina” di Palermo l’aveva imparata a memoria.

Era anche lui in piazza, tanto per battere le mani sguaiatamente e far baccano senza che, una volta tanto, nessuno potesse dirgli niente e, quando capì che il comizio volgeva alla fine, disse ammiccando agli amici:

  • Ora vado sotto il palco e gli faccio una pernacchia!

E non perché fosse di idee contrarie, ché le uniche idee che aveva erano quelle di dar fastidio al prossimo, ma soltanto per fare, discolaccio qual era, qualcosa di riprovevole.

Si portò proprio sotto il palco ed emise una pernacchiona con tutto il fiato che aveva nei polmoni.

All’oratore, colto di sorpresa e fuori di sé per la rabbia, era uscito spontaneo quel “Cu fu ddhu cornutu?!” mentre con gli occhi saettava tra la folla per individuare chi aveva avuto l’ardire di insolentirlo.

Così, chiarito l’equivoco, il Vescovo apprese con sollievo che il cornuto era Peppineddhu e non Goffredo di Buglione.