I

Ricorrono quest’anno cento dieci anni dalla morte del grande cantore di “Miricae” , avvenuta all’età di cinquantasei anni, il 6 aprile 1912 a Bologna alle ore 15.26 del  Sabato Santo a causa di un tumore  diagnosticato dopo varie consultazioni tra l’amico di sempre , medico di famiglia e  intemerato custode  della salute in specie fisica dei membri di casa Pascoli, dott. Alfredo Caproni  e il  Prof. Severo Bianchini, Primario dell’Ospedale di Lucca,caro al poeta per le comuni origini romagnole.

 La diagnosi infausta viene in seguito definitivamente confermata dal celebre clinico Augusto Murri, del quale il prof. Bianchini è allievo:  in altri termini,non vi sono più dubbi che si tratti di un tumore con tutta probabilità dovuto a cirrosi da alcolismo progressivamente estesosi dallo stomaco  al fegato con  esiti ferali .

La terrena avventura pascoliana é intrisa fin dalla nascita di dolore e  tragicità costantemente  consegnate  fino a noi attraverso l’intera  opera  poetica, donde vengono tratte,per far parte delle antologie scolastiche, in quanto designate come più rappresentative, quelle poesie e sempre quelle che inevitabilmente contribuiscono a insaldare nel lettore l’ immagine  di  una umbratile prostrazione   psicofisica,  ripiegata sui fardelli esistenziali  innegabili compagni delle affinate tematiche  letterarie fin dai primordi  predilette dal Poeta .

 Così  in primis  si delinea il  ricordo  della  “cavalla storna” che legioni di studenti immersi con convinzione nella cultura “classica” hanno recitato doverosamente a  memoria, laddove era in uso, spesso  astraendosi dal contenuto ben noto, drammaticamente riferito all’uccisione del padre Ruggero.

 Nel prosieguo delle lezioni di letteratura italiana i programmi scolastici hanno previsto per decenni ,forse adesso un po’ meno,l’ulteriore presentazione di quello squisito  cammeo poetico  di nome “Valentino”  che  cantilena  la sua giornata di sole, pur di melanconia patito , in sublime contrasto con lo sfarfallio di versi per una volta immemori dei soliti luttuosi eventi, anzi teneramente partecipi nel  racconto delle  miserrime ristrettezze  materiali crudamente  cucite indosso al poverissimo bambino.

In questa accolta di versi che potrebbe sembrare, per certa critica, “ad usum infantis” la  realtà ,  più vissuta del reale, si fa impersonare  da un piccolo “Valentino” in carne ed ossa, dal Pascoli medesimo fotografato in uno di quei suoi  sempre più frequenti e amorosi soliloqui con la macchina fotografica, non ancora “Leica”,per carità, ma giusto di un tanto così,visto che la prima compatta portatile nascerà nel 1913.

In effetti il Pascoli si mostra fin da subito dilettante informato nonché esigente e già in grado di  apprezzare le ricerche in tema di fotografia condotte dal “gentile cuore”, amico Michele Bertagna che,udite,udite, già nel 1899 riesce a ideare un procedimento di stampa a colori che per l’epoca ha di sicuro della magia…una magia benefica s’intende!

 Per farla breve, il Poeta  nel 1900,dimorando a Messina dove dal 1898 è ordinario di letteratura latina all’ateneo della città dello Stretto,chiede “istruzioni”  sullo sviluppo della pellicola….”Che ho il Kodak io!”

Di questo “innamoramento” fotografico rimangono pertanto  alcune  preziose immagini, oggi più speculari che mai,del soggiorno messinese ricreato più volte dal Poeta con pose in autoscatto sul balcone di palazzo Sturiale dov’Egli,assieme a Mariù,”angiolino bello”,si é stabilito fino alla durata dell’incarico universitario,ovvero giugno 1903. 

Si è dunque nell’ isola di Sicilia “bella e terribile” e il Pascoli prova un vero diletto a fotografare  a più riprese ,come alta e ulteriore ispirazione, ciò che ha già descritto con prosa ammirata nelle lettere inviate alla sorella in attesa di raggiungerlo costì.

Dal bel Peloro verde di limoni e glauco di fichidindia alla falce adunca del porto più bello del mondo fino al Forte Gonzaga sui monti peloritani….

Messina in questo momento di grazia  splende letteralmente  di fascino   naturalistico nelle espressioni pascoliane e buon per noi che uno dei maggiori Poeti del secolo appena passato,abbia potuto celebrare le incomparabili pregnanze mitiche dello Stretto di Ulisse,  anche mediante le belle foto del  Kodak, perché no, giusto un attimo prima che la buia catastrofe del  1908 ne sconvolga per gran tempo le coordinate vitali.

Breve ma essenziale ci appare  questa digressione sul periodo siculo-calabro di Giovanni Pascoli,del resto da lui medesimo nella nota missiva inviata a  Luigi  Fulci definito  come ” uno dei più operosi,più lieti  più raccolti,più sorridenti  di armonie della mia vita” e, aggiungiamo noi, della sua intera produzione poetico-letteraria…..

Estroso filo conduttore ,tra i tanti che quindi presiedono allo sviluppo della complessa indole semantico-letteraria del Poeta,ebbene sì, la macchina fotografica che, al suo apparire sulla scena della modernità, diviene una inseparabile seconda musa-ombra , capace di ricreare certe impareggiabili “ ispirazioni “ sulla  sempre  invocata “terra di Armonia” in quella valle del Serchio che cinge Barga, scelta a dimora del “Bello e del Buono,ove l’uomo “godea del poco e non sapea del tanto” ….  Come in un incanto “tutto era imbevuto di cielo: erba di poggi,acqua di fonti…..” Non a caso il trasferimento in questo agognato “eden” avviene il 15 ottobre del 1895, giorno della nascita del sommo Virgilio, attraverso strade lunghe, tortuose, ripide, lente come possono esserlo quelle che Giovannino e Mariù , immancabile fedele sorella , stanno percorrendo a …dorso di diligenza trainata ancora al vecchio modo dei cavalli, unici a potersi inerpicare su per la Valle del Serchio da Lucca,ove all’epoca  cessano le rotaie del treno, fino alla “Caprona”, questa villetta  solatia acquistata dopo anni di sacrifici, presto divenuta “porto della pace” ,ovvero foriera  della   “nuova vita” tanto bramata  nei versi  pascoliani!

Cosi va che  il  magro contadinello Valentino si avrà l’onore di venire ritratto due volte con gentile intuizione di poeta: la prima mentre sosta timido e restio nel giardino di casa Pascoli,quale uno dei  sette figli di Giovanni Arrighi,detto il “Mere” che cura i poderi del Poeta, la seconda mentre assurge a immortale protagonista di  tenere strofe, a nuovo  vestito di  nivea grazia  fiorita, appunto quella dei biancospini che”brocche” recano  in dono sui rami a primavera!                                                           

La cronaca degli  ultimi giorni di vita  del Poeta è concitata e insieme straziante   fino all’esatto momento in cui diviene manifesto che non vi sono più speranze di recessione della malattia . Tuttavia si tentano estreme terapie sull’onda illusoria di visite  specialistiche  e già dai primi di febbraio a tale scopo al capezzale del Pascoli si avvicendano   vari  consulti illustri al fine di scongiurare il peggio.

 Invano…il quadro clinico del paziente è ormai degenerato ma Giovannino,anche per suo espresso desiderio,  viene ancora curato in  casa a  Castelvecchio anche se per poco ancora.

Ben presto si rende necessario spostarlo a   Bologna , stavolta in casa di fidati amici , volendo e dovendo a tutti i costi evitare inopportune  intromissioni da parte  di una pubblica opinione nazionale già  allertata dalle notizie che si rincorrono  incalzanti  negli ambienti accademici,  circa la vera natura del male che porterà alla tomba Giovanni Pascoli.

 Lo stesso Quirinale segue molto da vicino e con vivo sollecito interessamento il decorso della malattia.  Trepidano per la vita del Poeta la Regina madre  Margherita,vedova di Umberto, il figlio, re  Vittorio Emanuele III e la sua bella e pia consorte  regina Elena che tante prove di carità  ha  già dato nei giorni terribili dello sconquassante   terremoto abbattutosi su Messina e Reggio Calabria nel dicembre del  1908.

  Dopo quella  felice e beneaugurante parentesi,  anche se disseminata di tappe polverose, che segna l’arrivo a Castelvecchio,  un’altra data  irrompe  a turbare i giorni sereni  scanditi di versi  e paciose passeggiate, con fatidica precisione: 17 febbraio 1912, giorno in cui Giovanni Pascoli deve  lasciare l’amata valle per andare a curarsi a Bologna.

Non suoni di fronde a stormire  lievi, né canti di uccelli ad accompagnare quello che già presago di morte si rivelerà come l’ultimo viaggio terreno del Poeta. Con uno sguardo di accoramento abbracciò tutto quello che era intorno…tutte le cose a lui familiari…

 La strada ,percorsa in macchina  fino al  Ponte di Campia, è sterrata e disagevole ed ecco  che la popolazione di Castelvecchio si mobilita compatta e amorevole per  riempire  le buche ed evitare dolorosi sobbalzi al caro malato.

Né più né meno che in quell’altro “patriottico” episodio in cui di cotanta delicatezza  si  erano resi protagonisti i milanesi nei confronti del morente   Giuseppe Verdi, confinato in una stanza d’albergo di via Manzoni, allorché  la cittadinanza s’era all’unisono ritrovata ad osservare, sotto le finestre dell’appartamento che ospitava  il Maestro ormai agonizzante, un silenzio  commosso, nell’attesa  che venisse  esalato l’ultimo  respiro…

Presso il Ponte  o meglio, al Casello del Salice ,attende un treno speciale,comprendente un vagone-infermeria allestito con tutti i servizi necessari ad assistere il caro  Giovannino,ormai tanto sofferente : il viaggio può avere inizio.

A Bologna per qualche tempo s’intrecciano ancora speranze  e più spesso scoramenti: alla fine l’andamento della  malattia si dimostra inesorabile.

Ormai l’ultimo atto sta per compiersi: è venerdì santo  e il Poeta entra in coma, al suo capezzale si danno il turno i vari specialisti con in testa lo stesso Murri del quale non è superfluo rammentare in questa sede  di quanto egli sia debitore in prima persona  al Pascoli che ,a suo tempo,é riuscito ad intercedere con successo presso il re Vittorio Emanuele III ,ricavandone la suprema grazia per il figlio Tullio, unico imputato nel famoso processo dell’anno 1902  per l’omicidio del cognato, conte Bonmartini , marito della sorella Linda. 

La fine avviene il 6 aprile di sabato santo alle ore 15.26 , preceduta di qualche tempo dalla morte dell’adorato cane Gulì che dal 21 gennaio 1912  “dorme nel più bel posto del nostro boschetto tra odorosi bossoli,sotto lauri regii e allori cullati dal canto mite e gentile  degli sgriggioli e rotondo e pieno delle capinere.”

Da una delle ultime  lettere del Poeta, spedita  in data 22 gennaio 1912 al carissimo  Raffaele Marcovigi,compagno  di corso all’Università di Bologna.

 Giungono le condoglianze telegrafate da parte della casa reale al completo, dei ministri del regio governo,degli amici poeti , coevi come  Gabriele D’Annunzio, “ fratello minore e  maggiore” in epoche felici,colme di  quell’ invenzione poetica riversata  in “Myricae”, già dalla prima edizione risalente al  1891 ,che il futuro Vate definiva “piccolo e prezioso libro di versi” celebrando ad un tempo  l’Autore,   come “artefice  di sonetti eccellentissimo.”

 E ora che Giovanni Pascoli non c’è più “il mondo par diminuito di valore”.

 Con un treno approntato per la triste bisogna, in data 9 aprile la salma viene riportata a Barga,terra d’elezione,rispetto a S. Mauro di Romagna terra di nascita e del resto lo stesso Poeta in vita ha  più volte fortemente espresso il desiderio di riposare accanto al bel “campaniletto di San  Nicolo”.

 Il popolo di Romagna fa,estrema ratio, qualche tentativo di ottenere le spoglie di Giovanni Pascoli : invano, che troppo arde da tempo l’amore del Poeta per questa sua Valle  ove “son tante viole/dove è tanto bello il sole.”

 Non resta che calare il sipario sulle note della marcia funebre di Chopin che tanto il Pascoli amava ascoltare in vita  e che farà da quinta sonora al suo funerale,eseguita da  due bande musicali inviate dal Comune di Bagni di Lucca.

 Tra gli illustri che seguono il feretro, il Maestro Giacomo Puccini,piangente e commosso che aveva sinceramente amato la persona e  l’opera del grande Poeta.  E anche se    “tutto non muore ciò che muor con noi” il grido della sua terra di Barga al funesto annuncio si propaga  universalmente commosso attraverso la  locale “Corsonna”,Corriere della Val di Serchio : “si fece notte in pieno meriggio e la nostra mente si fece offusca dopo i barbagli di una vivida luce”

  Alcuni cenni biografici

Le notizie sulla vita di Giovanni Pascoli sono fondamentalmente tratte dalle conclamate memorie  di Maria “Mariù” Pascoli, curate da Augusto  Vicinelli per i tipi Mondadori ed.1961, la amorevole, a suo modo, sorella, ostinata guardiana delle  memorie e  dei segreti viscerali  di casa Pascoli negli oltre quarant’anni di sopravvivenza alla morte del Poeta medesimo.

Come riportato nell’album scritto a mano dal padre Ruggero,così  altrettanto leggasi nelle testimonianze di Maria, alle “ore 6.30 pomeridiane del 31/12/1855  viene  alla luce Giovanni Placido Agostino in San Mauro di Romagna,  provincia di  Forlì,quarto dei dieci figli di Ruggero nato a Ravenna nel 1815 e di Caterina Alloccatelli Vincenzi nata a San Mauro di Romagna nel 1828, la cui quale madre appartiene al ramo nobile della  casata Alloccatelli di Sogliano.

Dal che si deduce  che nelle vene del Pascoli scorre per parte materna  una certa quantità  di sangue blu….

Il padre  ,come è risaputo ,ricopre  di fatto l’incarico di amministratore della tenuta  “La Torre”,di proprietà del principe Alessandro Torlonia, sulle orme degli zii paterni, a loro volta amministratori delle proprietà  dei marchesi Guiccioli di Ravenna,che hanno instradato al medesimo mestiere il nipote loro affidato dopo che  egli  é   rimasto orfano a soli nove anni  di ambedue i genitori.

L’evento determinante che segnerà la vita del Poeta e dei fratelli ,  spezzando tragicamente la loro fanciullezza ancora in fieri, è dato dall’uccisione del padre Ruggero avvenuta il 10 agosto 1867,mentre sta  tornando a casa  dall’avere sbrigato alcune commissioni .

Il delitto rimane impunito  ma quel che è peggio, in casa Pascoli da quel momento bisognerà quotidianamente misurarsi con il dolore, la sofferenza,le ristrettezze economiche. Nondimeno, tra mille traversie, Giovannino “Zvanin”,come familiarmente lo chiamano i fratelli, continua gli studi liceali e ottenuta ,dopo il conseguimento della licenza,  una borsa di studio per l’università di Bologna, si iscrive alla facoltà di Lettere dove insegna,già da  anni, il Prof. Giosué Carducci,prossimo e primo Nobel italiano per la letteratura nell’anno 1906…

Dopo qualche sbandamento di natura pseudo politica,Giovanni Pascoli riprende con rinnovato vigore gli studi universitari laureandosi con il massimo dei voti e la lode nel 1882. Seguono anni di insegnamento nei licei di Matera,Massa, Livorno, sempre  in compagnia delle sorelle Ida e Mariù che  contribuiscono con la loro amata presenza a ricostituire il “nido” straziato in tenera età dai luttuosi eventi familiari.

 Nel 1892, altra tappa basilare per il cammino accademico e poetico, il  Pascoli ottiene la prima di una lunga serie di medaglie d’oro ai concorsi di poesia latina di Amsterdam. Addirittura con il ricavato di questi preziosi riconoscimenti sarà possibile comprare la “Caprona” a Castelvecchio di Barga,luogo eletto dell’anima.

Da qui si allontanerà nel 1898,  per andare a Messina chiamato all’università a insegnar letteratura latina fino al 1903.

  I suoi corposi componimenti poetici scandiscono il quotidiano,sereno e proficuo, tra il 1897 e il 1905,culminando nella voluminosa esegesi critica della Commedia dantesca,favorita dal clima di grande bellezza paesaggistica che irradia dai luoghi stessi del Mito.

Particolarmente celebrativa l’orazione del 1911, “La grande Proletaria si è mossa”, dedicata all’Italia impegnata nella campagna coloniale di Libia  ,mentre già dal 1905,non senza qualche tentennamento al riguardo, Egli siede sulla cattedra di letteratura dell’università di Bologna ,già  appartenuta al vecchio Maestro Carducci.

Prima di morire  per un tumore al fegato, causato,fra le diverse congetture, anche da un troppo osannato amore per “il buon bere”, il Pascoli fa in tempo ad aggiudicarsi l’ennesima  e,purtroppo,ultima,medaglia d’oro al concorso di poesia latina della città di Amsterdam.