DICANT HAEC INDIGENAE[1]

Or di San Leo la bella storia canto,

prendendo spunto e riferimento,

da chi prima di me scrisse del Santo[2]

con fede, con passione e sentimento. 

E passo passo le vicende canto,

dalla sua penitenza le incomincio,

del nostro Leo, il beato Santo

da quand’era scolaro nel convento.

Conduceva là vita esemplare,

dedito al lavoro e alla preghiera,

ma il convento soleva abbandonare

al calar delle ombre della sera.

Se ne accorse però Padre Priore:

“Al bovese Leo io non lo sento:

temo che stia cadendo nell’errore

e in cose vane vada a perder tempo!”

Incaricò pertanto due scolari:

“Seguitelo ma non fatevi scoprire,

vedete cosa fa, dove si reca,

tornate poi da me qui a riferire.”

E quelli lo trovarono in ginocchio

nelle gelate acque di un laghetto

con nelle mani un libro di preghiere

che con il pugno si batteva il petto.

C’era nell’aria un profum di viole,

mandava il libro dei riflessi d’oro,

due candele s’accesero da sole,

d’Angeli in cielo risuonava un coro.

Gli scolari, nascosti lì in un canto,

stavano ad osservare con prudenza,

timorosi per aver visto un santo,

un santo che faceva penitenza.

Lesti perciò tornarono d’urgenza

là dal Priore che restò allibito

nel sentire le cose prodigiose

che quelli avevan visto e pur sentito.     

“Statevi zitti e non lo divulgate,

tutto qua, tra di noi, deve restare,

noi di Leo nostro ne faremo un frate:                      

gli incominciamo l’abito a tagliare.”

Ma quando, per la santa vita pia,

la fama sua più vasta ancor si fece,

prese della montagna allor la via,

là dove lavoravano la pece.

Là fu il primo miracolo che fece:

nel piccol forno in mezzo agli alberelli

a pezzi a pezzi infornava pece,

sfornava pane per i poverelli.

E la fama che detestava tanto

ancor di più si sparse tra la gente

creando gran disagio al nostro Santo

che romito viveva ed umilmente.

Decise allora di cambiare vita,

partì segretamente una mattina

e andò in Sicilia a fare l’eremita

nelle montagne dietro di Messina.

Ma quando tanti ormai furono gli anni   

sull’animo e sul corpo suo a pesare,

sentendosi sfinito dai malanni,

là sui suoi monti volle ritornare.

Andava stanco su per l’erta via,

disfatto di fatica eppur contento,

ma le forze gli vennero a mancare

quand’era ancor distante dal convento.

Ad un pastore che di lì passava

chiese: “Buon uomo, mi puoi tu portare

sulle tue spalle fino al mio convento

ch’ormai la vita mi sta per lasciare?”

Il pastore rispose rattristato:

“Volentieri vi presterei le braccia,

ma se carico Voi sopra le spalle

dovrò lasciare qui la mia bisaccia.”

“Aiutami al convento ad arrivare:

ti sarò molto grato per davvero!

Se sulle spalle mi vorrai portare,

della bisaccia non ti dar pensiero.”

Quell’uomo l’aiutò senza esitare,

e il Santo non mancò alla sua parola:

quand’il pastore si voltò a guardare     

la sua bisaccia li seguiva sola.            

Oramai il Santo stava per spirare.

Tu puoi lasciarmi qui: – disse al pastore –

l’ora è giunta: mi voglio confessare.

Corri a chiamare il Padre Priore!

Di corsa quel buon uomo andò al convento

e sul portone cominciò a bussare:

Correte, presto, che c’è un moribondo:

vuol confessarsi e comunicare.

Chi accidenti sarà questo straccione?!

il Priore rispose infastidito.

Manco il tempo di proferir parola

e il braccio gli rimase rinsecchito.

O, San Leo, sanatemi il mio braccio

gridò, quando oramai aveva capito –

che la chiesa vi voglio fabbricare!

Ed il suo braccio ritornò guarito.

E il Santo ebbe conforti e sacramenti

e lieto poté a Cristo ritornare

e le campane di chiese e conventi

da sole cominciarono a suonare.

Così si chiuse la terrena storia,

or degli Angeli ascoltando i canti,

contempla Cristo-Dio nella Sua gloria,

coi Martiri lassù e cogli altri Santi.

Molti prodigi fece dopo allora…

tanti che non si posson enumerare

ed i bovesi ne parlano ancora.

Però ci sono due da strabiliare.

Dopo del disastroso terremoto

del milleseicento e cinquantanove,

che tanto seminò lutti e rovine

lasciando distruzione in ogni dove,

nel palazzo difeso e vigilato,

il Vicerè Gaspar de Bracamonte[3],

sebben le porte fossero sbarrate,

 il nostro Santo si trovò di fronte.

Sacra Corona vi vengo a pregare:

ai bovesi, che sono disperati,

le dure tasse sono d’abbassare:

gli sgravate trecento e più ducati.

Ditemi come entraste! Voi chi siete?

Entrai per la potenza del mio Dio,

sono della famiglia Rosaniti,

nacqui a Bova e Leone è il nome mio”.

Nel millesettecento e trentanove

arrivarono le locuste a frotte,

 un grande stuolo che oscurava il sole,

divenne il giorno buio come notte.

Da due lettere, da una “I” e una “D”          

le ali apparivano segnate

e come Ira Dei, ira di Dio,

furon dai sacerdoti interpretate.

Temendo allor per le coltivazioni

il popolo a San Leo s’era rivolto

e gli insetti mangiarono le foglie

ma non le spighe e si salvò il raccolto.

Poi finalmente, l’anno successivo,

allorquando si videro tornare,

San Leo l’indirizzò verso la costa

e prontamente le sommerse il mare.

Felice Bova, tu, dolce paese,

che hai un tale Santo tuo avvocato,                  

pregato nelle case e nelle chiese,

dai suoi fedeli amato e venerato.

E or San Leo benedetto sia

cogli altri santi di terra bovese,

con Luca, Costantino e con Elia[4].

E benedetto sia il loro paese!

Francesco Borrello


[1] Accogliendo l’esortazione del Responsorio di San Leo (Dicant haec indigenae, narrent etiam exteri, tanta et tot prodigia praedicent Bovani = Dican ciò i nativi, i forestier lo narrino, tanti e tal prodigi tramandino i bovesi) abbiamo messo in versi, perpetuando una secolare tradizione, quel poco che si conosce delle vicende del grande Taumaturgo, venerato Patrono di Bova e di Africo. Il “miracolo delle locuste”, da noi riportato, è assente nelle varie versioni dialettali e nei Colloqui probabilmente perché posteriore alla loro composizione.

[2] In particolar modo ci riferiamo alla Canzuna di Santu Leu o Orazioni di Santu Leu nella versione di Africo di ‘Ntoni Gagliardi e in quelle anonime di Bova ed ai, parimenti anonimi, Colloqui e versetti a San Leo.

[3] Gaspar de Bracamonte y Guzmàn Pacheco de Mendoza, Viceré del Regno di Napoli dal 1658 al 1664.

[4] San Luca vescovo di Bova e amministratore della diocesi di Reggio Cal. (CASILE diacono Mario (a cura di), Le lettere di San Luca vescovo di Bova, Litografia Foti, Bova Marina 2002). Da alcuni studiosi è ritenuto il primo vescovo di Bova da altri invece è identificato con San Luca di Melicuccà le cui reliquie furono traslate nella cattedrale di Bova per scongiurarne la razzia. San Costantino bovese, basiliano e vescovo di Bova, confratello di San Nilo. A lui è intitolata Via san Costantino a Bova. (VIOLA Andrea (a cura di), NATOLI decano Pasquale, Memorie basiliane in Diocesi di Bova, dattiloscritto 1976).  Sant’Elia, contemporaneo di san Costantino, ritenuto iniziatore della vita romita in Bova, visse, sotto la regola di San Basilio, in una grotta in contrada Comi e lì probabilmente morì. (Ivi). Nella versione di Africo della Orazioni di Santu Leu vi è un cenno a Sant’Elia: Santu Leu e Sant’Elia eranu frati / lu fricazzanu e lu pedavulitu. In una delle versioni bovesi c’è un cenno sottinteso a Costantino ed Elia: Ch’è bellu a Bova viveri felici / manteniri nu santu e dui beati. Non può esservi cenno a Luca perché la riscoperta di tale santo risale agli anni ’60 del secolo scorso.