Il dottor Domenico Principato omaggia il compaesano e padre intellettuale, il fossatese dottor Santo Aquilino, con un racconto che io ho voluto pubblicare in più battute, per garantire il gusto piacevole della lettura, ringraziando per aver affidato alla mia penna il suo prezioso ricordo.              Siamo alla seconda battuta del racconto… e Principato scrive:

[…] Nella sua vita nulla gli è stato risparmiato, nemmeno la spartenza degli amici, degli abbandoni. Vessato, seppe sempre rispondere con vitalità alle tempeste della vita come esperto nocchiero in grande tempesta sul vascello. Laureatosi in scienze politiche col massimo dei voti nei lontani anni 70, rimase sempre legato al suo paese, ai suoi conterranei alla sua gente di Calabria. All’università ci arrivò passando dal liceo classico di Reggio Calabria, ove fu allievo di Armando Dito e compagno di Oreste Dito jr, nipote del famoso storico cosentino legatosi alla città reggina per via del suo lavoro di insegnante, mentre ai tempi di Messina seppe essere degno allievo del Martines, docente di diritto costituzionale. In ultimo fece in tempo, con me complice e testimone ed anche collaboratore indegno, a scrivere o riscrivere la vera storia del paese natio, per certi aspetti sepolta incustodita; da 3 mila anime, Fossato era scesa a meno di 800 persone, di cui nulla sarebbe importato del passato, ma solo dell’immanente presente, salvo amici e cultori, pochissimi per giunta.

Strappato dalla Calabria, dopo alterne fortune che lo videro prima operaio, poi strillone per conto dell’unità alla Fiat di Torino, accudito da maestranze calabresi dell’edilizia, divenne dirigente del settore economato della regione Piemonte, ove si prodigò da persona attenta, finendo per conoscere le Langhe tanto care a Pavese, di cui ne aveva apprezzato lo stile e il pensiero.                     Fu la considerazione stereotipata dei meridionali a convincerlo a dover studiare per rompere quell’indecoroso dogma, ne fece la missione della sua vita, fino all’ultimo istante, con ogni mezzo possibile egli si prodigò a dare il giusto merito alle ragioni dei calabresi, di quelli d’Aspromonte in particolare (a partire dalla legio fretensis, che aveva ucciso il Cristo, il quale non venne finito a colpi di lancia per ammazzarlo, da un calabrese, ma per farlo respirare come gesto di pietà ultima e per dissetarlo ancor prima con la posca, come ulteriore gesto di solidarietà). Voleva così ribaltarne tutti gli stereotipi storici, a partire da quelli evangelici, che vedevano una Calabria cattiva e indolente, selvaggia, per questo si impegnò incessante ad esaltarne i talenti, a volte disperati ed emarginati. Con lui-racconta Principato- si passava da Tommaso Campanella alle lezioni americane di Italo Calvino.

E’ morto nel suo paese, nella sua stessa casa che per via di ricordi tristi definiva come “sacello di dolore”, con in volto un animo sereno e regale. Non ha fatto però in tempo a portare a compimento il suo sogno ideologico, quello di sottrarre dall’isolamento e dall’oblio tutti i paesi dell’Aspromonte che egli voleva stretti in una rete solidale e fraterna di cittadini volenterosi pronti al mutuo soccorso, con il fine di abbatterne l’isolamento in cui erano caduti. L’ultima utopia di un sognatore, romantico, che come Proudhon trovavo seduto sugli scalini di casa. Il suo genio e il suo estro intellettuale avevano arricchito altresì le maschere della commedia carnascialesca nostrana,

che accanto a Giufà grazie a lui potevano contare memorie donchisciottesche di “Cirivillino” e “Trunfio”, personaggi cui prese spunto da esperienze vissute e che aveva rivisitato col riso amaro tipico delle commedie dei De Filippo. Erano state partorite dalla sua mente con lo scopo che le loro parole arrivassero a tutti e insieme a loro il significante morale dirompente e drammatico, per non dire tragico. Non seppero emergere però, poiché i critici frugano da altre parti; altresì rimangono inedite di lui i suoi primi due romanzi e le poesie o la miscellanea dei suoi diari.                Per certi aspetti pensieri che, a volte, -continua Domenico- ho avuto il sacro dubbio personale, fossero appositamente scartate da certa intellighenzia intellettuale borghese, forse impaurita dal loro significato di denuncia, dirompenza comunicativa, linguaggio italiano destrutturato e sgrammaticato volutamente, come preso a suon di ascia. L’unico romanzo edito è “Il tempo era d’inverno”, la prima edizione, la seconda  non ha fatto in tempo a venire alla luce per esequie acerbe dell’autore. Un romanzo meraviglioso, capace di essere portato in cinema o teatro, lo spaccato della vita sociale fossatese, che poi sarebbe la vita di ogni paese di collina in agonia.