Uno squarcio si apre sul passato, una luce improvvisa illumina un segmento di vita. Un flash back direbbero gli anglofoni. 

Le immagini scorrono, gli eventi si susseguono, le paure restano scolpite, le sofferenze plasmano la vita e rendono indelebili i ricordi. Che  siano proprio queste vicessitudini speciali a forgiare una resistenza, una immunitá che consenta di piegare gli attacchi del tempo per cento anni e oltre?

Il 21 settembre Sebastiano Varese ha compiuto 81 anni dal matrimonio, il 28 agosto aveva raggiunto il traguardo dei cento.
Un primato.

Si era sposato a Bova nella chiesa della Madonna della. Conciliazione nel 1942 quando aveva appena 19 anni con Maria Panzera che ne aveva 20. Altri tempi!
Dopo i cento anni di etá arriveranno i cento dal matrimonio?. Congratulazioni ed auguri. Intanto Sebastiano Varese proprio a cavallo di questo anniversario trova la lucidità per raccontare e la figlia Vittoria trasporta in prosa il suo pensiero, fa pulsare i momenti di un vissuto duro in un periodo tragico per il nostro Paese.

Ecco la testimonianza di un segmento della sua vita: il ritorno a casa dopo l’armistizio

.Ero sposato da alcuni mesi quando a causa del dilagare della seconda guerra mondiale, venivo chiamato alle armi. Mi era  arrivata “la cartolina ” e dovetti partire. Era il 15 gennaio  1943. Non avevo ancora vent’anni,  li dovevo compiere il 28 agosto.
Ma ero giovane e forte, pieno di energia e di sogni

.Era appena passata la mezzanotte quando lasciai la mia casa, situata nella contrada Santa Domenica, dopo aver salutato mia moglie, in dolce attesa, i miei genitori che vivevano con noi e il cane, fedele amico di sempre. Il nodo alla gola pian piano si sciolse sotto il rumore delle suole delle mie scarpe che mi colpiva le orecchie e risuonava nel silenzio freddo di quella notte di gennaio.
Ero partito presto perché dovevo raggiungere a piedi la stazione di Bova Marina, percorrendo ben 14 chilometri, per prendere il treno che mi avrebbe portato a Reggio Calabria.

Era notte fonda, ma io non avevo paura di niente, anche se camminavo nel buio della notte  e nel buio del futuro.
Spensieratezza?
Mi raggiunse lungo la strada Andrea Plutino, proveniente  dalla contrada Paracupio, anche lui chiamato alle armi.

Raggiungemmo la stazione di Reggio nella tarda mattinata.
Qui incontrai Giovanni Minniti, un mio cugino di secondo grado che prestava servizio là.

Fu, infatti, lui ad indicarmi il treno che dovevo prendere. E dopo avermi augurato “buona fortuna “, vi salii con tanti altri compagni.
Il viaggio fu lungo ed estenuante, ma sul treno noi ragazzi cantavano e scherzavamo, perché forse la guerra la consideravano un ‘ “avventura “
Incoscienza?

Alla stazione di Napoli scesi. Poi fui inviato a Cassino dove venni nominato Fante N.514 del Reggimento di Fanteria.

Non fu semplice come pensai…
La guerra è distruzione e morte!
Dopo vari spostamenti mi ritrovai a Trieste. Ancora combattimenti…
Dramma!
Poi a Desenzano del Garda. Mi trovavo qui l’8 settembre 1943.
Fatidico giorno!
Il 9 settembre,  il giorno dopo,  il nostro Capitano Giuseppe Marafioti (mi ricordo ancora il nome) che era reggino della Piana, convocò tutti noi soldati e con un tono misto tra incredulità, paura e speranza ci dice: ” Soldati siete tutti liberi! L’Italia ha firmato l ‘armistizio. Si salvi chi può.  Buona fortuna!”
Io ero addetto alla contraerea  e mi ricordo che corsi subito al mio posto e tirai l’otturatore della mitragliatrice.      

Furono momenti concitati…                      

Tutti abbandonammo le postazioni, la caserma e scappammo prendendo quasi niente.
Incredibile!
Ma dove andare? Ognuno voleva tornare nella propria casa. E la mia dov’era? A oltre milleduecento chilometri di distanza!
Forza e coraggio.
Queste doti ci volevano e io le avevo. Ero giovane, vigoroso e ottimista. E forse davvero queste doti mi hanno permesso, ieri, di tornare a casa e, oggi,  di raggiungere il mio secolo di vita.
La prima cosa da fare era sbarazzarsi della divisa di soldato. La seconda era quella di muoversi da soli e non in gruppo, alla ricerca di vestiti da “civili” e trovare cibo e acqua.
Bisognava avere fiducia in se stessi e fortuna
Una famiglia di contadini mi diede un paio di pantaloni,  una camicia e una giacca.  Tenni solo gli scarponi militari. E menomale,  mi servirono eccome!
I primi giorni noi meridionali ci separavano al mattino e poi verso sera ci rincontravamo. Alcuni, però,  non abituati come me – nato e cresciuto in campagna- non riuscivano a camminare per ore attraverso zone impervie e sentieri selvaggi e cadevano a terra stremati.
Disperazione
Ricordo i nomi dei miei compagni più cari: Gnoriselli, di cui conservo ancora la foto e poi Luigi Battaglia, Francesco Arecchi, Demetrio Ardore, tutti della provincia di  Reggio  Calabria e Filippo Lipodaci della provincia di Cosenza.
Amicizia fraterna.
Camminavamo quasi sempre soli, lontano dalle strade, dai ponti, dalle ferrovie,  dai paesi e dalle città per schivare gli assalti dei soldati tedeschi. Per sostenermi mangiavo ciò  che trovavo lungo la strada, verdura e frutti spontanei. Bevevo l’acqua dei ruscelli, delle pozze che incontravo e naturalmente facevo attenzione alla fauna perché se c’era ed era viva significava che l’acqua non era stata avvelenata dai nemici e potevo berla.
Istinto di sopravvivenza.
Solo una volta io e i miei compagni fummo ospitati. Ricordo che una sera stanchi ed esausti ci avvicinammo ad un convento,  non ricordo dove ci trovassimo,  forse in Campania. Bussammo e le suore ci aprirono. Mangiammo una “meravigliosa ” scodella di patate bollite!
Vero e spontaneo amore del prossimo.
Quando arrivai in Calabria il mio compagno Filippo Lipodaci mi invitò a restare a casa sua, in provincia di Cosenza,  ma io volli proseguire senza fermarmi.  Volevo la mia casa.
I giorni passavano tra mille difficoltà, ma non mi sono mai arreso. La notte, se rischiarata dalla luna, camminavo, se buia e tempestosa mi accovacciavo in un antro o sopra un albero. Poi riprendevo il cammino.
Vicino Catanzaro, lungo un sentiero lontano dalla  città, incontrai un mio paesano  Antonino Violi, anche lui tornava dalla guerra. Dopo alcuni anni diventerà mio cognato, perché sposerà Anna, sorella di mia moglie.
Le stesse radici creano legami affettivi.
Gli ultimi giorni passarono veloci. Ero ormai vicino a casa.          

Infatti, il 7 ottobre 1943, quando la campana del paese segnò mezzogiorno con i suoi 12 rintocchi, io mi fermai nel luogo detto da noi “Maru Calvario, ad osservare la mia casa che mi veniva di fronte. Avevo percorso a piedi, con la sola forza delle mie gambe, ben 1200 chilometri.

Felicità pura.

Ero arrivato a casa mia, ma nell’aia né mia moglie,  che ricordo portava un cesto colmo di uva appeso ad un braccio,  né mia madre che subito trovai più invecchiata, mi riconobbero. Solo il mio fedele cane iniziò ad abbaiare ed a scodinzolare.
Argo è sempre immortale.
E’ fu festa grande per tutti. Poi entrai dentro e vidi per la prima volta mia figlia che era nata il 23 luglio.
Ero riuscito a tornare vivo dalla guerra. Ero sano e salvo!                           

Aiuto divino, fortuna, coraggio,  fede, energia, ottimismo, solidarietà,  amore per la vita, per la natura, per il paese…
Sono questi gli “ingredienti “che servono per superare gli ostacoli e campare cento anni?
Traguardo eccezionale.
Io direi di sì! Io ho amato e amo la vita, la mia famiglia, la patria, la natura, il mio paese!
“Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti. (Cesare Pavese).
Grazie a tutti
Vittoria Varese: Sono riuscita a raccontare il “viaggio”, con il l’aiuto di mio padre che incredibilmente si ricordava, come si può vedere,  anche i nomi. In questi  giorni è stato collaborativo.

Conclusioni? Morale? No! Piuttosto considerazioni.

Un popolo che si lascia ingannare, coinvolgere, tanto da consentire un sistema impazzito che porta un Paese ad una guerra senza senso se non quello di emulare altre pazzie, porta a condizioni estreme. Un giovane, appena 19enne nel ’43, minorenne per quell’epoca, viene strappato alla famiglia, alla moglie in attesa, scaraventato a migliaia di chilometri da casa senza rendersi conto del perché e perché quello che gli sta davanti è suo nemico.

Tuttavia in Sebastiano non c’è risentimento perché lui sente che la Patria, la propria terra, non si identificano con il potere di turno, con i folli del momento, lui sa che quelli passano quello che è suo e di tutti noi, resta.

Innanzitutto la famiglia, quella alla quale si è legati da amore vero, la Patria che è l’amore vero per la propria terra, non quelle che si mettono al primo posto negli slogan e poi si demoliscono nella realtà.

Il Varese diventerà Carabiniere e resterà “nei secoli fedele”, che è il motto araldico dell’Arma.

I suoi cento anni li ha festeggiati con i Carabinieri, con il suo cappello e le sue mostrine, orgoglioso, memore e fedele.