Halloween è una notte magica durante la quale, il confine tra il mondo dei morti e quello dei vivi è oltrepassato dai nostri cari defunti, i quali tornano sulla terra a visitare i posti di un tempo e i loro cari.

Antiche tradizioni vogliono che anche al Sud Italia, alla vigilia di Ognissanti o del giorno della commemorazione dei defunti, i nostri morti tornino spiritualmente sulla terra per far visita ai loro cari, rifrequentando le loro case e i luoghi del passato.

Tanti sono i dolci tipici di Ognissanti e del giorno dei morti, frutta martorana, conosciuta anche come i morticeddi, le ossa di zucchero ossia l’ossiceddi o l’ossa di mortu e altrettante sono le usanze e credenze, ad esempio lasciare la tavola bandita anche durante la notte per i defunti, con del buon vino e un mazzo di carte da gioco; si crede anche che i nostri cari possano persino radunarsi in Chiesa per ascoltare la messa dei morti celebrata il 2 di novembre; cosa inaspettata tra le tante che possiamo trovare nella nostra tradizione è la zucca.

Tutto questo, forse, serve per sentire i nostri cari ancora vicino e per i bambini a non fargli provare paura della morte e dei nostri stessi cari che non ci sono più; per questo i nonni o la buon’anima di qualche zia o trisavolo, nella notte della vigilia del giorno dei morti, portano dolci o giochi per i bambini e tutti con gli occhi sbarrati sotto le lenzuola, in allerta di sentire qualche rumore sospetto.

Al Sud, in particolare in Calabria, era uso andare per le strade con delle zucche intagliate a forma di testa e sdentate, illuminate all’interno da una candela o lumino; le zucche non simboleggiavano altro che le teste di morto, le quali venivano poi messe sulle finestre delle proprie case e lasciate illuminare tutta la notte e tutto questo quando la festività anglosassone di Halloween nemmeno esisteva ancora.

In tanti siamo caduti nell’errore di credere che le zucche di Halloween siano una tradizione importata e che la globalizzazione ci fa adottare le altrui tradizioni scordandoci delle nostre, invece, nei meandri della memoria e tradizione storica, siamo stati noi ad “inventare” una tradizione così popolare e sentita con un ortaggio della nostra terra che è anche buono da mangiare.

Mi vorrei soffermare, se pur brevemente, sulla tradizione dei dolci dei morti. Questi dolci sarebbero i doni per i morti e tra essi, oltre quelli citati sopra, vi sono anche le Dita degli Apostoli, crepes farcite con crema e marmellata, oppure con del cioccolato, tipici della tradizione reggina, le Fave e il Grano dei Morti, che preparati la sera della vigilia della commemorazione dei defunti, si lasciano sulla tavola affinché possano gustarli anche i nostri cari durante la notte.

Il grano dei morti viene preparato con i chicchi di grano tenero, fatti bollire e poi conditi con mosto cotto, cioccolato, canditi e noci. Il grano, per il suo valore simbolico, ha una stretta relazione con la vita e la morte. Le Dita degli Apostoli e le fave sono biscotti che prendono i nomi dalle loro forme. Le fave sono il piatto per eccellenza dei tradizionali banchetti funebri e la tradizione vuole che siano custodi delle anime dei defunti, in quanto le loro  lunghe radici possono raggiungere il mondo dell’Ade arrivando fino al nostro.

La nostra tradizione è fortemente simbolica che, a differenza di quella anglosassone, non prevede quindi un travestimento. I nostri cari, quando verranno a trovarci sulla terra, hanno piacere e bisogno di rivederci e, per questo, non dobbiamo ingannarli o confonderli con false identità.

Concludo con un pensiero del poeta bovese Rocco Criseo rivolto ai nostri cari defunti, affinché le loro anime possano trovare pace nella vita eterna alla quale sono stati chiamati. Dice il Criseo <<Nell’avvicinarsi del giorno dei Defunti, la mia mente, inesorabile, ritorna al passato e rivive i momenti belli trascorsi con le persone care che non ci sono più>>.

PENSERI AMARI

Caminu a passu lentu nta la strata

e l’occhju meu girandu v’à posari,    

nta n’artu muru cu na canceḍḍata,

supr’a un puntuni, tra ddui spund’i mari.

Mi fermu, non rinesciu a jir’avanti,

ca chiḍḍ’è locu sacru, di rispettu,

nci su’ persuni cari, amici tanti,

poveri cristi e genti di ntellettu.

Miru ḍḍu munti e u cori meu si scura,  

rivjìu nu mundu chi mi parr’e jeri, 

nu pezz’i mia è ḍḍá, tra chiḍḍi mura, 

a menz’a chiḍḍi cruci e ḍḍi lumeri.

Viju a me patri chi mi dici: “Figghju,

ti vosi beni e mai ti bbandunai,  

vinni la morti e cchjú non mi risbigghju,

cuntinua tuni chiḍḍu chi dassai.

“Oh patri i frunti a ttia non sugnu nenti,

ca era propriu grandi lu to cori,

quantu carizzi, quantu nsegnamenti,

mi dasti tuni prima pemmi mori.

E i nonni mei c’a mbrazza mi tenìru

e nott’e jornu mi ballariaru,

cu quant’amuri iḍḍi mi criscìru,

non c’era spilu chi non mi cacciaru.

E curri menti, vaji, non ti fermari,

ripassa tuttu quantu lu me jiri,

a figghjolanza chi non po’ tornari,

ḍḍi tempi beḍḍi chi non poi sperdìri.

E vaji ramingu, avanti chi penseri,  

c’ognunu nasci cu lu so destinu,

a ogni viti lu so palu meri:

ripigghju a passu lent’u me caminu!