Il tempo era d’inverno giunge alla parte conclusiva del racconto del dottor Domenico Principato, il quale ha raccontato e descritto l’illustre intellettuale e amico fossatese Santo Aquilino, con parole semplici è arrivato dritto al cuore di chi legge, facendone commosso ricordo.

Il tempo era d’inverno-dice Principato- è un romanzo che, a mio avviso, vale tutto l’impegno di essere gustato e assaporato, ci ho messo ben 10 anni di vita a capirlo e, nonostante io lo rilegga più volte, ogni volta trovo sempre qualcosa in più. Ed io quel romanzo l’ho visto crescere in tutte le stesura che lui mi concedeva in anteprima, sia per amorevole lezione di scrittura creativa, sia per incentivarmi a quel lavoro di limatura che ho sempre odiato ma che dovevo imparare. Bisognerebbe leggerlo, portarlo in scena, per capire ciò che è stato, ciò che è… e il pericolo di “cià” che sarà quella chiosa fredda dell’abbandono alla morte sociale di uno dei suoi personaggi: “abbiamo morto tutti!” Prima che cada l’oblio della memoria, prima che i grecanici non si accorgano più di niente. Quando ne lessi in prima battuta le bozze, lui me le concesse perché io gli portai il mio primo e unico romanzo, poi mi impegnai nello sterile studio giuridico che tutto mi sottrasse. Lui le vide e mi disse “per scrivere servono parti pendule pesanti e ossute, voi ne avete?”                                                                                                                                                                                        Solo in seguito mi omaggiò delle sue copie dove io potei esclamare “questa roba è meravigliosa e al contempo coraggiosa da raccontare!” e lui “io ho tempra buona, sguardo che buca montagne e parti pendule da vendere, riguardo a voi, ancora dovrete mangiare pane di loglio: siete acerbo, avete bisogno di sgrazzarvi ma vi farete… leggete e abbiate udito, consapevole che scrivere è molto più difficile che leggere roba di per sé già impegnativa… avessi il dono della parola! Dal canto mio non dite che sono scrittore, perché questo è solo un giocattolo, il mio, roba d’esercizio!”                                                                                               Il giocattolo finì in tesi di laurea, la mia-racconta Domeico. Ma questa è un’altra storia. Ad ogni modo le stesure furono per me buona occasione per capire dove finisce la codificazione scritta del pensiero e inizia l’arte del romanzare, come slancio di significante universale che deve necessariamente essere reso comprensibile a tutti. Il romanzo infondo è lotta sociale e crescita di pensiero. Di lui serbo mille aneddoti che, prima o poi, racconterò, perché il tempo non può essere sempre d’inverno, prima o poi deve venire un’altra stagione, anche quando si è di fronte alle stazioni del saluto, bisogna trovare modo di mettere in pratica l’esempio ricevuto. Ed allora forse saprete che il tempo era d’estate ed io ero piccolo, ma fino a quel momento accontentavi di questo: ero fanciullo e mi ritrovai al muro del passo, luogo mitico e incontro di acque e di venti e non volle offrimi da bere del vino, mi dovetti accontentare di una gassosa al limone e, mentre recitava il conte Ugolino, digrignando i denti sul capo di quella feccia, che altro non era dell’arcivescovo Ruggeri, disse “il vino lo berrete quando anche tu qui porterai una tesi di laurea, fatta di lacrime e sangue come la mia”. Gliene portai ben due, la prima discussa giorno della morte di sua sorella, che egli sognò la sera prima, la seconda, invece, venne con me. Ora che potevamo godere dei calici, invece, ha deciso di andare via, d’inverno come i grandi artisti. Niente però sarà perduto se mai saremo capaci di dare il giusto merito all’opera di questo intellettuale con la ‘I’ maiuscola, vissuto in sordina ma che per me è stato un fanciullo dai grandi stupori e un maestro in ogni campo del vivere e del sapere, specie quando mi insegnava “la difficoltà di trovare l’alba dentro l’imbrunire”. Ovunque egli sia, gli sia lieve la terra che lo vide e ora lo cinge come pietosa còltrice. Ci lascia però il dono più grande e pesante, sottrarre i capaci e i fervidi di mente dallo sbando, dalla solitudine, dall’isolamento come lui fece in qualche modo con me, non so se con meritati esiti- conclude Principato.  

“A noi non è dato in questa valle il dono dell’armonia. Ma la pazienza ci aiuta a sopportare perché i malvagi difficilmente si correggono e il numero degli stolti è infinito. Ci è solo concesso, da sventurati di bassa fortuna, di pregare per la salvezza di tutte le anime e di quella dei bisognosi…”

Uno dei personaggi de “Il tempo era d’inverno” (incontro tra un contadino e un teologo) pag. 190, I ed. Casa editrice Nosside, Ardore (RC).