SI COMUNICANO I RISULTATI AI QUALI E’ PERVENUTA LA GIURIA.
LA CERIMONIA PER LA PREMIAZIONE E LA CONSEGNA DELLE TARGHE E DEGLI ATTESTATI SI E’ TENUTA IERI SABATO 1 AGOSTO ORE 18 NELLO SPAZIO ESTERNO DELLA BIBLIOTECA COMUNALE BOVA MARINA
Il concorso è articolato nelle sezioni a tema libero:
– Sezione ITALIA (A)
A1) lingua italiana;
Vincitori:
- Melania Rossello – Non era una fiaba – Messina
- Lucia Lo Bianco – Acquerello – Palermo
- Ex aequo Elisabetta Liberatore – Sarà la pioggia – L’Aquila
Anna DI Prima – Il timido coraggio dell’aurora – Reggio Calabria
Menzioni
Barcelò i Bauçà – Notte blu (mple nicta) – (Palma de Mallorca -Sp)
Antonino Fortuna – Joker – Vibo Valentia
Paolo Surace – La luce della strada – Reggio Calabria
Giovanni Spinella – Perché? – Modena
Segnalazione
Fabio Cuffari – Sirene – Aosta – poesia palindroma
LE TARGHE E I RICONOSCIMENTI (CLICCARE SUL LINK)
ITALIANO A BARCELÓ I BAUÇÀ MENZIONE
ITALIANO B ANTONIO FORTUNA MENZIONE
ITALIANO C PAOLO SURACE MENZIONE
ITALIANO D GIOVANNI SPINELLA MENZIONE
ITALIANO FABIO CUFFARI SEGNALAZIONE
LA RECENSIONI
Recensione “Non era una fiaba” di Melania Rossello
Alcune volte, ci sono colossali paesaggi dentro una poesia. Incontenibili e prorompenti scenari tra le sottili trame di un verso. E accade che i ruoli s’invertano e che il premiato offra un premio inestimabile al lettore. Ed è quanto accaduto con la lirica ” Non era una fiaba”: un gioco di fulmini/ una luce rossastra/una rondine e oltre al “cielo in rivolta” s’accende e scoppia un’altra rivolta: la rivolta della Bellezza! Che, appunto, premia il lettore con la sua fascinazione.
Assegna le sue medaglie: quella del vento dell’autunno del mare dello scirocco! la poetessa non tralascia nulla, chiama a sé tutta la Creazione e la offre alla poesia come suo Regno.
Ma come si trasforma l’intera Creazione in critica letteraria?
Come si parafrasa, si recensisce il soliloquio di un “Autunno che si assopisce tra braccia invernali” senza violarne l’ascolto?
Ce lo insegna la poetessa: con il fluire delle parole, con la musicalità delle assonanze, con le aggettivazioni che accompagnano e qualificano ogni sostantivo, con accenni onomatopeici, con allitterazioni, ricercate ripetizione di sillabe e suoni di simile acustica.
Ella si serve delle figure retoriche, senza ostentata eloquenza. Lo stesso fa col ritmo. Cambia passo: lento,” il tempo oscilla”, veloce “il gioco guizzante di un fulmine”, andante “folleggia la farfalla”, che sembra di essere finiti in uno spartito di Vivaldi. Penso all’ Autunno di Vivaldi, che con l’Adagio culmina sulle più alte vette della Poesia e delle Quattro stagioni; ravvedo lo stesso passaggio del violino solista nel quarto verso, “balena di luce rossastra tra il nero denso di nubi”, come se la poetessa componesse con la stessa tessitura o accordatura.
Il primo Premio, attribuito dalla giuria appare, quasi, un apriori, intendo dire che la Premialità sembra già addentro la Poesia, come se Le appartenesse, fosse insita nel primigenio vitalismo che la attraversa.
È una poesia che si ausculta, è il battito al posto della battuta metrica. Essa ritma, pulsa, fino alle aritmie dei versi sciolti.
Un cantico, a tratti, somigliante al primo scritto della letteratura italiana, a quel Cantico dei cantici che intona una tradizione poetica, che fa ancora eco ai nostri giorni.
“Non era una fiaba” è una preziosa collezione ed esposizione di sentimenti. Sotto le sembianze naturali, si scorge / l’inquietudine/ la prigionia/ l’ultimo abbraccio/ il sospirare. Si sollevano, dal divenire biologico, le domande senza risposta e una laude, forse inascoltata, di quando ancora sotto la luna, la poetessa, sognava la sua fiaba.
“Mi daresti un ritorno senza tempo? una rosa senza spine? un sentiero in salita senza ombra?”
Il finale, l’ultima terzina, si ricongiunge al titolo: la fiaba. La menziona solo due volte, eppure è presente in ogni verso, sembrando dapprima dare il via, come fa un maestro con la sua orchestra, e infine chiudere il concerto o porre l’ultimo segmento ad un cerchio. Forse la scelta della rotondità della luna, al penultimo verso, lo rappresenta: il cerchio della vita, il trascorrere del tempo che oscilla e, a volte, ci fa prigionieri negandoci quella fiaba.
Ma nonostante quel “non” del titolo sembri negare, fare da contrappunto al sogno, la poetessa, con un raduno di parole, lo costruisce sillaba dopo sillaba …. le sillabe diventano radici, le parole rami, le frasi alberi, le strofe la linfa, e la poesia, in fondo, fa fiorire un sogno! e la Luna che sovrasta, forse, lo custodisce.
Recensione Acquerello di Lucia Lo Bianco
È possibile che sia la tecnica dell’acquerello a creare atmosfere leggere, immaginose, o non piuttosto certi stati d’animo che ricercano strumenti d’espressione capaci di rilevarne la suggestione?
Forse la questione non si pone neanche, perché l’artista procede per intuizione e l’acquerello o qualsiasi tecnica pittorica si consuma e si scioglie nella narrazione della realtà come il pensiero detta e lo spirito si infiamma per diventare passione tra i colori di terre bruciate, vividi nell’impasto scelto con cura, provato e riprovato da pennellate informi, come assaggi di emozioni volte nell’attimo stesso in cui la tela si imbeve e l’immagine si disegna.
Le parole del poeta sono quegli stessi colori delle terre che sostano nella mente e l’animano quando una qualche emozione scrolla la noia quotidiana, e allora, il pensiero diventa questione che va risolta, espressa come un’esigenza, nella mescolanza non casuale di immagini, messaggi, ambivalenze, significazioni celate, rivelazioni, simboli che costruiscono il testo come un quadro e se ne fanno una ragione.
Sono diversi gli attori ma l’arte tende allo stesso scopo, univoco, che è quello di illuminare il cammino culturale dell’umanità, volgerla alla convivenza civile, equilibrata e armonica, munirla degli anticorpi ideali vs le guerre guerreggiate, l’ipocrisia del sistema informativo, l’indifferenza individuale al bene e al bello, componendo il verso che insieme agli altri definisce valori, individua percorsi, narra esperienze fruibili nell’attimo.
Il nostro poeta coglie scorci di natura che lega al suo stato d’animo, vi entra con la leggerezza e la speranza di colori tenui, le atmosfere di un testo godibile di variazioni lessicali in un contesto linguistico performante.
Santo Scialabba
RECENSIONE IL TIMIDO CORAGGIO DELL’AURORA di Anna Di Prima
La poesia, dallo stile elegante e dalla ricerca della parola densa di significati, esprime il senso di libertà a cui ogni essere aspira e che nessuna catena può avviluppare.
La lettura avvolge il nostro animo assetato di libertà, e di sogni alti da librare nel cielo, quasi ad accarezzare il canto degli arcobaleni e degli aquiloni spinti dal vento dell’emancipazione.
La storia di Aisha, sposa bambina, ripercorre il destino di quelle segnate dalla tradizione culturale che fa diventare gli occhi di ghiaccio a chi firma un contratto privo di essenza.
Queste bambine sono come ninfee, appena sbocciate, che scendono sulle acque della vita spezzate, come si fa con un fiore a cui si tolgono i petali; bambine che vanno incontro al loro destino lasciando cadere libere dalle mani stelle cadenti.
Ma i sogni restano incatenati dentro, vincono gli anelli delle catene dell’anima prigioniera che a piedi nudi e con viso scoperto, da guerriera, va verso la vita, la libertà.
Aisha ha quindici anni e sogna di essere una farfalla leggera, capace di spezzare le catene dei pregiudizi, delle ataviche tradizioni.
La poesia diventa così un inno al coraggio, ai diritti come quelli esaltati da Malala, nel romanzo “Io sono Malala”, scritto da Malala Yousefzai* insieme alla corrispondente Christina Lamb, che lotta per la conquista della libertà di pensiero e di espressione, semplicemente per essere donna, persona essere vivente.
Caterina Nicita
*Premio Nobel per la pace 2014 a 17 anni
Recensione “Sarà la pioggia” di Elisabetta Liberatore
“Cotidie morimur” (Seneca).
“Ogni giorno moriamo”: L’uomo vive perdendo giornalmente pezzi di sé, del proprio vissuto in un “supremo scolorar del sembiante” (Leopardi). Le lancette del tempo scorrono inclementi mentre i giorni si fanno sempre più cupi e tristi susseguendosi veloci all’interno del cono d’ombra della disillusione. Ma la negatività esistenziale può almeno trovare un qualche ristoro nel recupero del passato, anche di un suo solo frammento che funga da varco montaliano al dramma della condizione umana? A dispetto dell’ottimismo di Proust che riteneva possibile annullare le distanze temporali gettando un solido ponte tra presente e passato, gli sforzi del poeta ligure erano risultati, invece, vani. Il ricordo della persona amata che ride per qualche istante nel “puro cerchio” del secchio è destinata a scomparire subito nel fondo oscuro del pozzo né vale, in altra occasione, l’accesa invocazione alla forbice del tempo affinché non cancelli il viso amato in ascolto.
Ma dove hanno fallito la carrucola del pozzo come pure la luce della petroliera sul mare montaliani, riesce qui, invece, la pioggia che, opacizzando i vetri, rende possibile lo sguardo sull’”altrove”. Non assistiamo comunque nella lirica in oggetto, “Sarà la pioggia”, alla realizzazione del sogno montaliano del “cangiare in inno l’elegia”, tutt’altro. E’proprio nel riuscito recupero della memoria che il pessimismo si fa ancora più amaro e pungente in quanto la reminiscenza dei giorni passati non riporta alla luce una felicità perduta latrice di sollievo e ristoro, bensì “spazi vuoti”, “doni mancati”, “carezze mai nate”, traguardi mai raggiunti nel corso di inutili primavere che neppure l’azione purificatrice della pioggia riesce ad esorcizzare. Dal varco aperto balza fuori quel tipo di passato che il venditore di almanacchi leopardiano non vorrebbe affatto rivivere e neppure sembra arrida al Nostro l’illusione di una prossima palingenesi poiché la lirica, prendendo l’avvio da un presente che appare bloccato in uno spazio senza tempo, è già proiettata verso un futuro ( da notare le forme verbali “sarà”, “avremo”, rivedremo”, “cadranno”) che guarda sconsolato all’indietro all’interno di un vissuto che sembra escludere ulteriori possibili, positive costruzioni.
O forse saranno quegli abbracci che compaiono improvvisi ormai nella chiusa ,per quanto assurdi ed improbabili in quanto scaturiti da quelle “carezze mai nate” cui il Nostro aveva fatto in precedenza riferimento, a rappresentare invece la via d’uscita, il varco tanto affannosamente ricercato?
All’interno dell’incertezza e della precarietà della vita umana, “omnia vincit Amor” e la sua voce, per quanto dimessa e flebile, semper vivit come speranza di salvezza e comunione tra gli uomini “presenti alla loro fragilità” (Ungaretti).
Notevoli, nella lirica, la costruzione poietica e l’abilità comunicativa come pure l’andamento pacato, meditativo e malinconico di gusto verlainiano che equilibra, smorzandone i toni, la desolata amarezza di un fallimento che eppure pare non essere stato ancora accettato in modo definitivo.
Daniela Ferraro
RECENSIONE SARÀ LA PIOGGIA di Elisabetta Liberatore
La lirica offre un incipit scenografico: lo spettacolo onomatopeico della pioggia che s’infrange sui vetri e “accende” i ricordi.
La poetessa verseggia e ci versa dentro, con una accurata scelta linguistica, un’apparente contraddizione in termini, un ossimoro: “la pioggia che accende”! In realtà, la contraddizione si sana immediatamente, non appena ci spostiamo dal piano razionale e ci portiamo in una dimensione emozionale o sentimentale. Qui la Pioggia diventa detonatore poetico, l’emotività subordina il supponente realismo della parola, essa (la pioggia) si mostra occasione, come direbbe Montale, per accendere, appunto, la rimembranza.
L’ardito accostamento (pioggia/accende) è una licenza poetica di grande potenza evocativa. La pioggia come occasione per la rimembranza.
Allo stesso modo, risulta efficace e svelante la scelta del vetro: reticolo disordinato dai cui interstizi si scorge e traspare ogni movimento dell’animo: “La pioggia batte sui vetri”, ed è svelante, il vetro, nel suo trasparire, finanche, la fragilità. Un simbolismo perfetto che la poetessa utilizza, con femminea sensibilità, per rappresentare i luoghi più romiti, impervi, solitari dell”anima. L’animus! privo di carezze; “carezze mai nate”, lo confida al 13esimo verso e lo descrive con accoramento, senza interruzione, ” con ansito”, talché la narrazione dello stato d’animo dura per dieci versi senza mai fermarsi, se non per il breve tempo delle virgole.
La dimensione emozionale e semantica risultano quasi sovrapposte, emozione e parola si somigliano, come fossero frutto di un gemellaggio.
Ogni parola scelta con dovizia, affranto freddo arresi fragile stanche, mette in scena “le memorie sopite dell’anima, le nostalgie, i rimpianti, gli spazi vuoti, i doni mancati, le mani esitanti.
Invece contrapposto, e non si sana, è il piano temporale: passato e futuro.
La lirica, che a tratti ha sembianze d’idillio, (esprimenti situazioni, affezioni, avventure storiche del mio animo, così lo definisce Leopardi) si ripiega in un ricordo che dovrà avvenire. La poetessa non si concede al ricordo nel presente ma vi è la supponenza di abbandonarsi al ricordo nel futuro. Come se Ella si sottraesse al presente, forse per l’eccessiva e dolorosa potenza che ha il ricordo sul suo animo, e lo coniuga al futuro: Sarà/avremo/ cadranno/ moriranno/ scalderemo.
E sarà ancora la pioggia, suggestiva iconografia, a condurci verso la conclusione che sembra poter aprire nuovi scenari. Forse dal termine lustrare, (lustrum, illuminazione), capoverso dell’ultima strofa, ci si aspetta un cambiamento sentimentale, anche la sintassi sembra trovare un ordine diverso, ma il tempo di un verso e nonostante un susseguirsi di parole meno malinconiche, il sentimento del poeta in chiusura non cambia. Anche la speranza di un focolare che finalmente riscaldi o lustri, appunto, è disattesa. Il tempo d’ immaginarsi il fuoco che divampa che già la luce è incerta, privando le parole di una emancipazione emotiva, che la conduca fuori da un luogo in penombra. Le stelle i petali le primavere ci fanno immaginare un rinnovato sentire ma la scelta verbale (cadranno/moriranno) e quella aggettivale, (incerta) ci riportano in quel fragile equilibrio da cui abbiamo cominciato a conoscere la nostra poetessa.
Premiabile è la nudità stilistica. L’autrice non si lascia sedurre da artifici, è un’artista della parola essenziale, purché non sia priva d’emozione. Anzi, va oltre, la rende visiva, tra penombre, luci incerte, tanto da sembrare d’uscire da un olio su tela di Monet o dal Fuoco nella notte di Van Gogh.
Antonella Genova
Recensione Joker di Antonio Fortuna
Non c’è strumento della mente umana più ambiguo e imprendibile quanto quello del joker; l’occhio è furbo, buffonesco il viso, l’assetto è stupefacente, magica la mimica, grottesca e invitante quanto segreto è l’atteggiamento.
Il joker non ha voglia di essere ripetitivo, ha invece desiderio eterno di rinnovamento, di morte e resurrezione, insomma di immaginazione; ora grandeggia ora si fa piccolo ma è presente più che mai, si nasconde per riapparire come un miracolo, per perdersi o perdere gli altri, perché è qui la sua vita, in quella situazione per cui non si sa chi è che agisce o subisce, chi racconta o ne è narrato, chi provoca il pianto o fa scoppiare il sorriso; se ci pensiamo il joker è la personificazione del nostro viaggio fantastico con tante e multiformi variabili che ci fa essere quel che siamo: uomini, incredibili signori della nostra vita quotidiana presi dal rischio e dalla follia o dallo stupore che ingentilisce e innamora, che rendono il nostro cammino vivido di senso, proprio come il sentimento di meraviglia che ci coglie nell’attimo in cui svoltiamo l’angolo e troviamo il privilegio che non ci saremmo aspettati: il gioco della natura con i suoi splendori, le evanescenze e la realtà come fu all’inizio; è il frutto della poesia che sorvegliata introduce alla percezione della nostra sorte che andiamo vivendo; ognuno è joker di se stesso ma non sa se avrà tempo di vivere o morire, di ridere o piangere: la combinazione scatta come una trappola o come un’aquila dal volo potente che trasporta verso l’alto.
Sta qui la magia della poesia e il suo tenere il filo, la fortuna della nostra fragile quanto grandiosa esistenza.
Il tema del testo sa in fondo di filosofia, che si chiede chi siamo, cosa facciamo nell’universo, quali sono i termini del nostro destino, del gioco che ci corre tra le mani; la poesia di Antonio Fortuna sa offrirci la sua visione del mondo, mentre il joker gli sfugge, cerca di essere altro, e nel suo eterno movimento costruisce il nostro perpetuo inarrivabile mistero.
Santo Scialabba
A2) in vernacolo
Vincitori:
- Saverio Macrì – Veni ‘nta terra – Bovalino (RC)
- Paolo Landrelli – Terra d’Amuri – Ardore (RC)
- Ex aequo Paolo Lacava – S’esisti n’atru mundu – Fabriano (AN) Maria Caterina Crupi – Quandu tornu a ‘Mendulia – Grugliasco (TO)
Riconoscimenti speciali
Gregorio Magazzù – A priera du piscaturi Palmi (RC)
Francesco Reitano – U quadru d’a vita – Locri (RC)
LE TARGHE E I RICONOSCIMENTI (CLICCARE SUL LINK)
VENI ‘NTA TERRA di Saverio Macrì
Lirica struggente e viva, fortemente espressiva. Un messaggio di speranza, di profonda umanità e di forte attaccamento alle proprie radici contadine. Un richiamo imperioso alla ricchezza interiore di chi sta in perenne contatto con la natura, alla vita semplice e genuina di chi gode e trae frutto dei prodotti che offre la terra.
Con un linguaggio semplice, ma ricco di versi capaci di guidare il lettore alla scoperta di un mondo antico, l’autore svela la profondità del suo animo, dove la materia e lo spirito si intrecciano in un susseguirsi di immagini scolpite nel cuore.
Con rima alternata e con un linguaggio particolarmente vivo, suffragato dalla consapevolezza di essere soprattutto uomo di altri tempi, narra del suo attaccamento alla amata terra e della necessità interiore di trasmettere al figlio la sua concezione di vita secondo i canoni da lui praticati.
Con un assetto metrico accurato e con una fine musicalità, il poeta traccia con grande efficacia descrittiva il suo percorso esistenziale, segnato da una esistenza densa di sacrifici e di duro lavoro.
Ammaliato dai ricordi, volge il suo sguardo al figlio e si rivolge a lui con un accorato invito: “Jeu ti chjamu ma tu cchjù non mi senti/ti guardu e non mi vidi, figghju meu/veni ‘nta terra, aundi rruzu ‘i denti/si voi mi sai daveru cu’ sugn’eu”.
Continua poi con il suo pressante appello, che diventa quasi una preghiera, una supplica, una implorazione, un inno alla vita che scorre e che lentamente segue il suo rito quotidiano, nel suo incessante procedere temporale:
“Sti fogghj chi tu vidi arrotulati/sunnu jorna di focu e di turmentu/ricordi ‘i ll’anni mei tutti passati/rondinelli chi volanu ‘nto ventu.”
“Vieni figlio a sentire l’essenza dei miei pensieri, che sono come le foglie che in autunno, inesorabilmente cadono e si arrotolano per terra, come gli anni che pian piano vanno via.”
Continua, poi, con il suo messaggio di speranza e invita il figlio a gustare l’avvento della primavera: “a primavera staci pe tornari” e lo sprona ad ammirare i campi che si riempiono di fiori nel mentre gli uccelli con il loro canto inaugurano la stagione dell’amore.
Lo sollecita, poi, ad ascoltare la dolce melodia delle cicale, che sublime, incanta come un suono di violini e il tintinnio delle campane che, aleggiando con i loro rintocchi, echeggiano sopra le verdi colline.
Conclude il poeta con un inno alla vita campestre e invita nuovamente il figlio a godere e saziarsi della natura. Lo sprona a trovare rifugio in quel mondo antico, ma ricco di perenne vitalità, che tonifica l’uomo e lo libera dalle angosce della moderna società.
Questa è la giusta fonte, dice l’autore, questa è la strada per cacciare via tutti i più tetri pensieri; questa è la vera sorgente di vita; l’acqua pura che disseta e purifica gli animi; l’espressione più genuina dell’essere umano.
Il verso finale è un apoteosi, un inno di speranza, un richiamo al rispetto per la terra, una sorta di testamento spirituale che lascia in dote al proprio figlio: “Veni vicinu a mmia, ca chista è a vita/caccia da testa tua tutti i penzeri/non è mportanti l’oru o la munita/ma i cosi ch’ennu ccà, chi sunnu veri!”
Questa è la vita vera, quella genuina, la sola capace di dare spazio e fecondità alle aspirazioni profonde dell’animo umano.
La frenetica rincorsa alla ricchezza, la sottomissione al dio denaro, non portano l’uomo al raggiungimento del bene interiore, all’appagamento di tutte quelle forme del vivere ideale cui ognuno ambisce.
“Caccia dalla mente tutti i pensieri che ti opprimono e rendono difficile il tuo vissuto quotidiano, liberati dalla frenesia e dalla spasmodica corsa della moderna società.”
“Vieni figlio mio nella terra dove io lavoro con sacrificio, se vuoi veramente sapere chi è tuo padre. Non ti fare ammaliare dalle sirene tentatrici di un mondo effimero, ricco solo di parametri comportamentali che contribuiscono a creare illusori paradisi artificiali, destinati a portare false speranze di una prosperità che rimarrà sempre virtuale. La vera vita è questa che assaporo io, in mezzo alla natura, con la semplicità di chi cerca giorno dopo giorno il pane quotidiano: “Veni ‘nta terra!” Rocco Criseo
TERRA D’AMURI di Paolo Landrelli
Poesia di forte testimonianza umana, dal verso scorrevole, impreziosita dalla rima e da una provata proprietà di linguaggio. Con vivezza d’immagini viene descritta la definizione dell’amore nelle variopinte sfumature che la natura ci offre.
“Chi è l’amuri non lu sacciu diri/chista palora n’ ’a sacciu spiegari/e non m’ ‘a fidu manc’a capisciri./E’ troppu randi: cchjù di celu e mari.
Il poeta, alla ricerca di similitudini, stimola a vivere appieno la propria esistenza ed esprime tutta la sua anima contemplativa di fronte ai colori e ai profumi della terra…”E si l’amuri ‘u potarria xjiarvari/’nci mentarria l’aduri di lu fenu, ai suoni e balli con gli strumenti della tradizione popolare…”Si poi l’amuri ‘u potarria sonari/’u faciarria cu’ n’organettu ‘a manu, ai prodotti tipici del proprio territorio…”Si poi l’amuri ‘u potarria mangiari/nci mentarria sarzizza e ddui gambuni, all’uso della parola…”E si l’amuri ‘u potarria pallari/eu cuntarria ‘i ‘nu mundu di sumeri.
Nell’esaltazione dell’amore, continua l’autore con una ulteriore immagine fortemente suggestiva e va alla ricerca di tutte quelle emozioni che fanno parte di un passato che è rimasto profondamente ancorato nei suoi ricordi.
Con scrittura vibrante e ricca di autentici sentimenti, paragona l’amore alla vecchia casa che lo ha visto ragazzino crescere, al caldo del focolare, alla mamma che lo riempiva di carezze.
L’amore per lui diventa un bisogno interiore, il desiderio ardente di poter riabbracciare i propri cari che non ci sono più, di poter allungare le braccia nella infinita ricerca degli affetti mai sopiti.
“Si l’amuri ‘u porria risurcitari/allongarria li vrazza comu strati/pommu tornanu li perzuni cari/Di l’arburegljiu meu li dericati.
L’epilogo è come un arrendersi alla realtà della vita. Non è possibile spiegare determinate sensazioni, dare un immagine concreta a emozioni che nascono dal profondo dell’anima.
Che cosa è l’amore… “n’ ‘o sacciu spiegari”, dice l’autore: non si può spiegare il profumo dei fiori, ma un nome io alla fine dovrò dare a questa parola così magica, a questo mio tormento dell’anima.
Scopre così con il verso finale, l’essenza poetica della lirica che attraverso i vari quadri delle otto quartine, dipinge ad arte, riempiendo di svariati colori tutte le sfumature cromatiche dell’amore.
Nella nona vi è la pennellata finale, quel tocco che dà al verso la sua dimensione universale. L’amore è un insieme di sentimenti che hanno tutti un nome diverso, ma se, dice l’autore,…se dovessi sceglierne uno…se dovessi dargli una definizione a me cara:
“Calabria ‘u chjiamarria, terra d’amuri”.
Ecco, questa è l’apoteosi di tutta la lirica, il sublime atto che manifesta l’attaccamento quasi sviscerale verso la propria terra, il rapporto fortemente passionale per quel territorio che lo ha visto nascere e che lo vede uomo oggi pieno di riconoscenza.
Calabria, terra d’amore, ricca di forte vitalità umana, dal cuore pulsante di sudore e fatica ma sempre pronto a grandi slanci di autentica e genuina generosità.
Il poeta la vede con gli occhi del figlio innamorato, dell’amante che freme di fronte alla sua prorompente bellezza, dell’anziano che gode ancora delle sue albe e dei suoi tramonti e si sazia con quella dolce melodia che lo accompagna nel suo andare sereno.
La Calabria è tutto questo, con tutte le sue criticità, con le problematiche che ogni giorno la rendono testimone dell’immane impegno profuso a garanzia di un fattivo futuro che è il sacrosanto diritto di tutta la gente.
Calabria, con le sue bellezze incontaminate, con i suoi monti, il suo mare, le verdi colline, i campi in fiore, la sua arte, la sua storia, questa è la Calabria ed ha un solo nome:
“terra d’amuri.”
Rocco Criseo
S’ESISTI ‘N’ATHRU MUNDU di Paolo Lacava
Versi puri e armoniosi in endecasillabi a rima alternata. Immagini che squarciano il silenzio della memoria e rimbombano fragorosamente nello scrigno dei ricordi del poeta che, animato da profondi sentimenti, si rivolge con un cantico accorato a una persona cara che non c’è più, presumibilmente la madre.
“Ti viu com’on quathru sculurutu/ti movi sulu ‘nto me’ciriveddhu/no, no’ ssiccasti mai juri pirdutu/si’ ssempri inthr’a mia, ‘nt’ananguleddhu;
Con stile incisivo, intessuto d’amore, l’autore si domanda incredulo, come possa: “scumpariri all’inthrasattu” quella risata imperiosa, quella voce risuonante nell’aria, e gli occhi, la bocca…” i to’ capiddhi, ’a to’ carizza o’ iattu”.
“Non può essersi spenta in un attimo, quella voce che ancora sento nell’aria e quegli occhi, la bocca. No, fino a che vivo, ti avrò sempre presente, non credo che la tua immagine possa sparire dai miei ricordi, portata via dal vento.”
No, dice il poeta, “tu sei qui, chiusa nel mio cuore…t’u rass’apposta, t’u rrisarb’a tia, sei in cielo, se esiste una vita oltre la morte, ma sei pure qui ai piedi del mio letto.”
“…S’è veru, com’è veru ‘U Pathreternu/ch’esisti ‘n’athra vita, nci scummettu/chi tu si’ ddhà, sia Paradisu o ‘Nfernu/si ddhà, e pur’è peri r’u me’ lettu;
“Fino a che il mio cuore batte, tu vivi dentro di me, sento la tua presenza, non mi hai mai lasciato solo. Ti vedo lassù nell’etere: serena, contenta, seduta che operi all’uncinetto con la calma che sempre ti contraddistingue, piena di amore e di bontà.”
“Questa visione mi inebria, mi conforta, mi gonfia il petto di infinite emozioni, che rendono il mio animo desideroso di una tua parola, di un sorriso, di una semplice carezza.”
Conclude l’autore, con l’ultimo oblio, con l’epilogo finale.
Non piango più, dice…” e chi nci ciangiu eu, chi ciangiu a ffari… non mi rattristo al pensiero che tu non sei con me, perché dove ti trovi adesso, assapori contenta quella beatitudine immortale che non fa parte della vita terrena e tutto questo mi conforta, mi fa lacrimare di gioia.”
Rivelandosi uomo di profonda fede, con cuore aperto alla speranza, rivolto alla persona a lui così cara, le manda il sublime messaggio finale:
“si ppenzu chi ‘nu jornu ndi ‘ncuntramu/ ‘s’esisti piddaveru n’athru mundu/allura, allura si chi ndi sciàlamu/chi gioia! Ciangiu e rriru, mi cunfundu!!!”
È l’epilogo di questo cantico amoroso, l’apoteosi dell’amore profondo per questa persona che ama profondamente. Un amore sincero, quasi mistico, che va oltre la morte, che lo accompagna nel suo viaggio terreno con la consapevolezza che un giorno incontrerà di nuovo la persona amata.
Questo è il messaggio universale, che il poeta lascia in consegna ai posteri, ponendosi quell’interrogativo che è certezza per i credenti, pura illusione per tutti coloro che “identificando ogni aspetto della realtà con la materia, escludono la presenza e l’efficacia di un qualsiasi momento superiore di carattere spirituale.”
“S’esisti ‘nathru mundu”, quante volte nella vita ci siamo fatti questa domanda? Anche chi ha il dono della fede, in un momento di scoramento, di travaglio interiore, cede al dubbio e come San Tommaso si chiede smarrito: Signore, se non vedo, non credo!
Che cosa c’è dopo la fine di ciascuno di noi, resterà sempre il grande mistero della vita. Un giorno calerà imperioso il sipario della nostra esistenza e cadremo ognuno in un sonno imperituro.
Un sonno che scandirà la nostra fragilità umana e che ci porterà in quella dimensione in cui ognuno crede. In ogni caso una riflessione va fatta e parafrasando il grande poeta Ugo Foscolo, sorge spontanea una domanda:
“All’ombra de’ cipressi e dentro l’urne confortate di pianto è forse il sonno della morte men duro?”
Rocco Criseo
QUANDU TORNU A MENDULIA di Maria Caterina Crupi
Poesia ritmica e scorrevole nei versi, dal profondo contenuto sociale e di forte spessore umano. Un cantico nostalgico e imperniato dal grande amore per il luogo natio che è sempre presente nella profondità del cuore dell’autrice. Lontana ormai da tempo dalla sua terra d’origine, la poetessa, sente sempre prepotentemente il richiamo di quel luogo che la vide bambina crescere felice con i propri cari.
I ricordi restano indelebili e diventano scrigni pieni di sensazioni mai sopiti e conservati gelosamente nei profondi meandri della memoria.
“A li cincu di la matina/sentu lu gaddu da ‘za Peppina/Lu suli mugunia da li finesci/mi vestu prescja prescja prima mi brisci.”
Com’era la giornata di lei fanciulla, in quel luogo fatato della sua infanzia? Riaffiorano nella sua mente alcune immagini che prendono man mano forma e si trasformano in sensazioni reali.
“Viju na seggicedda sutta all’umbra di na pergulara.”
Prosegue nel suo viaggio nel tempo passato e si vede ai piedi di un albero di mandorlo a guardare il volo di una rondinella verso il suo nido. Una visione surreale che subito la conduce ad allargare lo sguardo verso quella vallata “dill’Amendolea”, che ha segnato il suo essere donna oggi.
E pensa alle parole del padre, a quanta verità c’era nei consigli che le dava, a quelle frasi che ritornano prepotenti ora più che mai:
“Ah! Quantu raggiuni ‘ndaviva lu patri meu.”
E quella figura paterna si staglia forte nel verso poetico divenendo simbolicamente guida narrante delle bellezze di quella valle, dei profumi della natura, del silenzio atavico della fiumara che si adagia pian piano verso il mare.
“Picciridda mia, quandu ti n’divai/di sta terra scasciata, ricordati chi/è nu vantu, sentiri lu rihjatu di stu mari/e li so carizzi a lu calari di lu suli.
Questa è la magia della valle “dill’Amendolea”, in questa terra tutto è musica, tutto è poesia.
“Guarda figlia, dice il padre…la fiumara che scorre lentamente tra gli oleandri e i canneti, finendo la sua corsa nel mare che sta a basso. Scruta la Luna che, senza pudore, fa da sentinella a quel paesaggio di inaudita bellezza, che dal cielo è guida e luce per i pescatori mentre nel fare del giorno calano le reti.”
“Questo è il tuo ieri, il mondo che tu ora hai lasciato per poterti costruire un futuro garante delle tue aspettative. Questo è il passato che vive costante nei tuoi ricordi di ragazza, la tua vallata “dill’Amendolea” che ti accompagna nel tuo iter quotidiano e mai ti abbandona.
Perché, così conclude la poesia…” Lu principiu dill’amuri è unu sulu/cu l’arduri di lu cori, tuttu s’avi a guardari/ma lu richiamu di la terra non s’avi a ‘bandunari.
Il messaggio è forte e rivela la grande forza morale dell’autrice, che vive il presente con la consapevolezza che, niente e nessuno le potrà rubare quel pezzo di vita che l’ha forgiata e resa felice.
Consapevole del suo stato di emigrante, di donna che come centinaia di migliaia di sue conterranee, ha dovuto lasciare la terra natia per un lavoro stabile e sicuro. Conscia della sua attuale condizione sociale, della realtà quotidiana, affronta con fede il suo futuro sapendo che ci sarà sempre il momento del ritorno e potrà riassaporare nuovamente il profumo della sua vallata.
Perché questo è il senso della vita, vivere con forza e coraggio la propria esistenza, guardando tutto con “l’arduri di lu cori” e andare avanti con dentro il cuore una dolce attesa:
“Quandu tornu a Mendulìa”
Rocco Criseo
– Sezione EUROPA (B) francese, inglese, spagnolo e tedesco (primo e unico premio
per lingua).
- Smahane Noukhaili – Résistance – lingua francese (Marocco- Italia)
- Ahmet Terli – Gestern Heute Morgen – lingua tedesca – KOLN (Germania)
- Barcelò i Bauçà – Lagrimas negras – lingua spagnola – (Palma de Mallorca -Sp)
- Lucia Lo Bianco – A Day Will Come – lingua inglese – Palermo LE TARGHE E I RICONOSCIMENTI (CLICCARE SUL LINK)
A day wil come di Lucia Lo Bianco
A day will come
when the sun
will shine
for us only,
when a flower
will grow
as you like it.
A day will come
when a road
will open
as you go past,
when every face
will admire
you with courage.
A day will come
when love
will harvest
only love
when nobody
will ever break
your heart.
That long-awaited day
will certainly arrive.
In un mondo multimediale di tracimante negatività, prescelte perché fanno notizia, rumors,
in un mondo in cui il think positive viene relegato in un angolo remoto,
in un contesto di interazione interpersonale mirato alla disseminazione a piene mani di contrapposizioni se non di odio,
in questo scenario, l’autrice sembra vestirsi di seta, per far scivolare tutto il negativo che fa soccombere,
attiva la resilienza di cui è permeata,
e lancia un anelito di speranza.
Lucia Lo Bianco scaglia una certezza,
per ognuno di noi arriverà un giorno ritagliato sulle nostre aspettative,
un giorno in cui la strada si aprirà davanti a noi,
un giorno in cui l’amore raccoglierà solo amore
e il sole brillerà solo per noi.
L’autrice non indica la strada da percorrere,
non ci invita a “noli foras ire, in te ipsum redi: in interiore homine habitat veritas”, “non uscire fuori, ritorna in te stesso: dentro l’uomo è la verità”, come esortava s. Agostino,
non ci invita cioè a trovare dentro di noi le risposte che cerchiamo,
né tantomeno ci invita, a fronte di una realtà, spesso così mutevole, amara e crudele, a trascendere anche noi stessi, per cercare il tutto in un’altra dimensione.
No.
L’autrice nel suo inno alla speranza ci lascia nell’indeterminazione.
Sa che per ognuno quella strada non è predeterminata,
sa che ognuno guardando oltre, sempre oltre, vedrà brillare il sole.
“That long-awaited day
will certainly arrive”
Quel giorno tanto atteso
arriverà sicuramente.
Elio Cotronei
RESISTENZA di Smahane Noukhaili
Essenziale, ben calibrata, di forte impatto comunicativo.
Sono le tre percezioni istintive che si ricevono immediatamente.
La poesia come strumento di liberazione della propria mente dal turbine di pensieri negativi che, se accumulati per troppo tempo, l’avviluppano e crescono, finendo con il contaminare le proprie emozioni, la propria capacità di pensiero e di proposizione, con il rischio di imboccare una via senza ritorno.
E l’impegno intellettuale, il comporre poesia, scava nella mente dell’autrice e le consente scoprire in un angolo appartato il proprio “io”, la rende consapevole delle proprie potenzialità, l’aiuta a trasformare la sofferenza, in ricordo e infine in DIMENTICANZA.
Si accende la SPERANZA.
Scatta la forza della resistenza.
In fondo è un inno alle potenzialità dell’uomo, come lo descriveva Blaise Pascal, “questa pianta pensante che non vive più di un giorno, di un’ora, rispetto all’eternità, ma che in questo giorno, in quest’ora è capace di abbracciare i mondi che ruotano sul suo capo”. Ed è così, infatti l’uomo, inalberando la SPERANZA, riesce a superare anche i momenti più nefasti con la sua capacità complessiva di RESISTENZA
Elio Cotronei
– Sezione speciale EUROPA ELLENOFONA (C) greco – calabro (GC)
Vincitori:
- Mariangela Maesano – O Proféssuri Pippo
- Bruno Stelitano – Sulavrimie –
- Francesco Nucera – Ti mmorti
TARGA SPECIALE ALLA MEMORIA E ALLA CARRIERA a Francesca Tripodi
GRECO ONORIFICENZA FRANCESCA TRIPODI
O Profèssuri Pìppo
Epèthane o Profèssuri, o Pippo “sciàrra”
ce àfiche vivlìa pu ghiomònnu mian giàrra,
pu legu tin istòria tin dikìma
pùccia t’irtai ta leddhìdia sce fonìma.
To clèu sto magnon Vua ce catu sto Jalò
ce ciòla sto Vunì, Richùdi ce Gaddhicianò;
ta dàclai catevèu cì pu Omèro ècamen poesìa,
pu o Professùri, àppode, èfere tin cultùra ce tin filìa.
Ce lego enan addho prama ti mu donni onùri
ecìno èleghe viàta: “ Egò immo ciòla sce Richùdi,
i mànamu, ena Siviglia sce Ghorìo ìche ghià ciùri!”.
Ti àddho sonno ipi ghià to filo dikomma,
mi pai chamèni i magnin dulìan tu
ce mi ene faghì ghià t’ammiàlomma.
Il Professore Pippo
È morto il Professore Pippo “sciàrra”
e ha lasciato libri da riempire una giara,
che raccontano la nostra storia
da quando son venuti i fratelli di lingua.
Lo piangono nella bella Bova e anche alla Marina,
pure a Roccaforte, a Roghudi e a Gallicianò;
le lacrime scendono dove Omero ha creato poesia,
dove il Professore, da qui, ha portato cultura ed amicizia.
E dico un’altra cosa che mi da orgoglio,
egli diceva sempre: “ Io sono pure di Roghudi,
mia mamma, un Siviglia di Ghorio aveva come padre!”.
Cos’altro posso dire per l’amico nostro,
che non si perda il suo grande lavoro
e che sia nutrimento per i nostri cervelli.
Mariangela MAESANO
O Proféssuri Pippu
Il poeta italo-greco Ugo Foscolo così di se stesso: << Non oblierò mai che nacqui da madre greca, a Zacinto, che fui allattato da greca nutrice e che vidi il primo raggio di sole nella chiara e selvosa Zacinto, risuonante dei versi con che Omero e Teocrito la celebrarono.>> Omero ne celebrò le acque, nel ritorno in patria, ad Itaca, personaggio reso immortale per merito della sua celebrazione poetica. Così, ne presente sonetto moderno ripercorre il sentiero poetico dell’antico gigante, universale, esaltando le opere, l’operato e l’aspetto umano del protagonista alla cui produzione va attribuita riconoscenza eterna.
Salvino Nucera
Bruno STELITANO
Sulavrimie
Nostalgia e paura sono i fili conduttori dei versi poetici che risvegliano i ricordi di parte della vita trascorsa tra le montagne dell’antico paese, quando, bambino, nelle notti tempestose si udiva il vento sibilare talmente forte da incutere molta paura ad un bambino ora avanti negli anni, quando un altro rumore si unisce a quello antico, più vicino, più pauroso: quello del mare unito a quello del vento, sibilo e scroscio diversi, più potenti, più scioccanti che risvegliano e riportano nella mente ricordi spiacevoli inerenti una persona cara non più tra i vivi che, invece, amava il mare in bonaccia.
Sono entrambi fischi percepiti nella paura,nel rimpianto, ne risveglio di ricordi dolci e amari di un’intera vita.
Salvino Nucera
Francesco NUCERA
Ti mmorti
E’ un tema ricorrente nella storia della letteratura mondiale quello di affrontare il tema della morte con leggerezza, con fredda ironia, il tema della morte, instaurando con essa un dialogo immaginario per esorcizzarla, per tenerla lontana, per farsi coraggio volendo dimostrare di non avere paura, come sempre dovrebbe essere, specialmente quando si è andati fin troppo vicini e si è stati fortunati perché la morte si è allontanata di sua sponte e la si è evitata. Credo sia la prima volta che tale momento della vita di una persona sia trattato con leggerezza, col sorriso, con ironia, nella lingua dei Greci di Calabria rendendo il rapporto, il dialogo uomo-morte, leggero, quasi amichevole, direi comico.
Salvino Nucera
Francesca Tripodi.
L’importanza di una donna nel mondo grecanico.
La comunità grecofona di Calabria ha subito, nel maggio 2019 una gravissima incolmabile perdita con la scomparsa dell’amabile signora Francesca Tripodi, grande poetessa di Ghorio di Roghudi, sicuramente la più grande e prolifica fra le donne.
Figlia di Carmelo Tripodi noto, nel mondo grecanico con l’appellativo di “patriarca”, non solo perché capofamiglia e padre di dieci figli, ma anche perché per decenni è stato fonte privilegiata di studiosi, glottologi e non solo, di ogni parte del mondo, dell’antichissima lingua poiché sapeva fornire notizie, chiare, precise, dettagliate su ogni aspetto della vita che si era svolta, attraverso i racconti degli antenati, e si svolgeva in tutto il nostro territorio, non sono in quello di Ghorio di Roghudi di cui si sentiva orgoglioso di essere stimato cittadino. In un tale ambiente famigliare e con un tale personaggio come padre, Francesca ha avuto la fortuna ed il privilegio di farne tesoro di tutto ciò che ascoltava dal padre, avendo avuto la possibilità di apprendere la lingua, di ascoltare più volte storie che poi, nel tempo, sono diventati, insieme alle esperienze personali, oggetto e soggetti della sua ispirazione poetica, mai banale, ricca di spunti, di argomenti, in un linguaggio vario, a volte inusitato. Qualsiasi argomento inerente le sue conoscenze, come si è detto in precedenza, è stato oggetto della sua attenzione, trattazione poetica. Tutto ciò e rintracciabile, riscontrabile nell’unica sua pubblicazione, postuma, fruibile che ha un titolo significativo: “La terra nel cuore: inno alla vita”(To chuma stin cardìa: paracàlima tis szoì). Appunto, un inno alla vita precocemente interrotta.
Salvino Nucera
SI RINGRAZIA LA GIURIA
Presidente: Prof. Elio Cotronei
Prof.ssa Caterina Nicita Prof.ssa Antonella Genova
Prof.ssa Daniela Ferraro
Prof. Santo Scialabba
Prof. Salvino Nucera