Fortunato Stefano D’Arrigo , nato ad Alì Terme  nel 1919 , in provincia di Messina, morto a Roma nel 1992, questo il nome completo dell’autore di “Horcynus Orca”, appartiene di diritto  a quella suprema genìa di autori  al di fuori del tempo ordinario, che vanno considerati come fosse sempre una prima volta per scoprirne di continuo, avendo sensibilità e accortezza, le sfaccettature lirico linguistiche,epico nostalgiche che sopravanzano qualsivoglia ambiguità  di critica  interpretativa ufficiale e non.

Come é forse  risaputo, sin dal 1975, anno della definitiva pubblicazione per i tipi Mondadori, preceduta da una stesura risalente al lontano 1960, già corretta in bozza e mai arrivata in libreria,  l’attenzione  intorno al romanzo del Nostro ha oscillato dai consensi più  entusiastici a pregiudiziali perplessità qua e là affioranti da parte di meno attenti  esegeti, fra l’altro, spesso colti in flagrante,vale a dire nell’atto di  pontificare senza  aver letto, né prima né dopo.

Più spesso di quanto si possa credere, dal momento che  accostarsi al romanzo capolavoro del D’Arrigo  esige, per così dire, un passionale  addestramento  nel  percepire,  di pagina in pagina,  più di mille, ossessivi  soliloqui diuturni e, peggio, notturni a causa di virgole e vocaboli da risparmiare o  sopprimere, umanizzandone i significati fino allo spasimo della intuizione/inventio….

Come non rammentare il tanto e sofferto volgere che, da dietro le quinte della scrittura, prelude finalmente alla  considerevole mole  del magmatico racconto cui fa da sfondo, per chi  lo ignorasse, quell’omerico  Stretto ulissiano,  pare pleonastico ma non è, che dopo millenni ancora cinge  di respiro catartico la  città di Messina,ove chi scrive è nata, a torto ritenuta turisticamente degna solo di un  frettoloso  passaggio in ombra, rispetto alle altre  province consorelle dell’Isola!

Cosicché, sin dai primordi narrativi, l’autore per circa una ventina d’anni, si prepara strenuamente a dipanare il bozzolo entro cui  sente fremere la sua “creatura” , a  cominciare giusto dal titolo che, per parecchie lune e diversi annosi tentativi , non riuscirà a delinearsi  nella morgana  limpidezza in grado di subitamente impressionare il lettore,  in ideale attesa, si fa per dire, di essere  tramortito, ovviamente a livello letterario, con miriadi di immagini e  un  periodare vorticoso proprio come quei “garroffoli”, o  mulinelli a pelo d’acqua, la cui pericolosità temono i naviganti calabro-siculi fin dall’antichità.

Si va quindi  da  “La testa del delfino” che poco s’addice alle specie marine  maggiormente  protagoniste della vita  di queste acque  a  “I giorni della fera” che, nelle precipue intenzioni creative del Nostro, equivale all’esistere  di un  animale selvaggio dal triplice sembiante mostruoso,  in un’accozzaglia di forme tra balena,pescecane e  pescespada,quest’ultimo essendo lo stesso che di solito spadroneggia nelle più superbe  ricette marinare alla messinese.

Al momento,la Fera, quasi un’invocazione a mostrare la sua vera natura nel corso dei capitoli,  ammorba di umori  pestilenziali, guatando dalle profondità di questo braccio di mare  dove non staziona quasi più il falco pecchiaiolo   ma in compenso ci si può imbattere  nel mito della “Horcynus Orca” , crudelissima predatrice di umani indifesi e luoghi ineffabili,  nell’atto di emergere dagli abissi  in veste di orrido fascino che ha trovato il suo definitivo traguardo, ovvero titolo dell’ opera.

E la trama? E i protagonisti? Ci sono eccome:  l’una va individuata con garbo, lasciandosi permeare da quella lingua  arcaico /dialettale, agrodolce come in  certi templi della rinomata cucina isolana, gli altri, cioè a dire il marinaio  ‘Ndrja Cambrìa, “nocchiero semplice della fu regia marina” di ritorno /nostos dalla guerra, “maro figlio”,destinato a morte pressoché patriottica nelle fasi conclusive della storia, il quale,nella furia di riappropriarsi di  carnali emozioni, si accompagna volentieri a femminelle e sirenusse, un momento prima di farsi maternamente  irretire dall’altra  densa figura ad altorilievo, Ciccina Circé, che già nel nome “ s’incantesimano”,parola di autore, maliose pupille e neri serpigni capelli “unti e lustri” all’olio d’oliva. Con pochi colpi vigorosi di penna i tratti di lei, “babbiona”,un po’ maga,un po’ commediante di fino , s’ergono al di sopra del racconto, divenendo infine il Romanzo maiuscolo di acque e fere  e barche e ricerca di ami,  si dice più di cinquanta , amorosamente raccolti alla stregua di esperto fiocinatore, da Stefano D’Arrigo, prima di iniziare la strabiliante avventura di ricondurre “ ad unum” tutti i poemi  che hanno narrato in prosa e in versi le eroiche gesta  di  caccia grossa  nel “suo”scill’e cariddi.

Un  rovello che  talvolta sa di impaludamento stigio, avvertito nelle migliaia di appunti  e foto e riviste  che  intrattengono  i cultori su rigogliose esistenze di mare, mentre ci si strugge  di sensazioni  su ciò che in ultimo vale  davvero la pena di custodire dagli assalti dell’Orca, male del mondo, la quale,nel frattempo, non smette di emanare i suoi fetori , agitando lungamente le onde e gli animi.

Nel corso degli innumerevoli e defatiganti  vagabondaggi  in cerca della frase perfetta, Stefano D’Arrigo ebbe sempre al suo fianco la moglie Jutta, costantemente armata di tenacia e abnegazione,di modo ché, lo scrittore sentì il bisogno di esprimerle eterna  gratitudine dedicando a lei  la sua  monumentale fatica letteraria.

Nel riguardare le foto, non molte, che lo ritraggono, il D’Arrigo appare e dispare,schivo e ritroso,forse vagamente attonito nel presentire il ruolo demiurgico che il suo capolavoro,una volta giunto al compimento, avrebbe assunto nel corso della letteratura italiana novecentista,svelando in modo indefettibile a sé medesimo e ai lettori la certezza di poter  vivere  solo “dove il mare è mare”…dalla chiusa del romanzo! .

Mirella Violi