Samarcanda, l’antica città dell’Uzbekistan, conosciuta per essere nel mezzo della Via della Seta, ossia, tra la Cina e l’Occidente, al centro dell’Eurafrasia. Questa città, una delle più antiche del mondo, dal 2001 patrimonio dell’umanità dell’UNESCO, è lo scenario della canzone “leggenda” del cantautore Roberto Vecchioni.

Il brano Samarcanda durante gli anni di piombo e racconta in musica una vecchia leggenda orientale presente nell’incipit del romanzo di John O’Hara, proprio, Appuntamento in Samarra (Samarcanda) del 1934.

Un giorno un servo, incontrando la Morte al mercato del paese, si precipitò dal suo padrone chiedendo il cavallo più veloce che avesse per poter fuggire da quella nera signora. Il padrone gli concesse il cavallo e poi andò al mercato ‘ammonendo’ la Morte per aver spaventato il suo servo. Ma la Morte spiegò di non averlo affatto spaventato, semplicemente lo aspettava quella stessa sera a Samarcanda, proprio dove il servo era diretto a cavallo.

Nel testo di Vecchioni il servo è sostituito dal soldato e il padrone dal sovrano. Ritmata e orecchiabile, oltre che allegramente cantabile, Samarcanda è un vero appuntamento con la morte, in una costante riflessione dello spirito angosciato del soldato, il quale spaventato cerca di aggrapparsi disperatamente alla vita, sfuggendole, correndo come il vento verso la sua salvezza. Ma… la Morte lo aspetta proprio lì, preoccupata del fatto che, distratto ad ascoltare la banda, a far festa per la guerra finita, non avrebbe fatto in tempo a presentarsi al loro inevitabile appuntamento. All’alba del giorno prima, tra la folla, aveva provato a parlargli, ma lui fuggì credendo che lo guardasse con occhi cattivi, senza darle modo di avvisarlo che lo avrebbe atteso, proprio quel giorno a Samarcanda.

Per paura della morte, l’uomo, sopravvissuto alla guerra, è scappato dove la morte lo aspettava. Ecco come una canzone può diventare una parabola morale dell’inevitabilità della morte.

Nella lettera a Meneceo, Epicuro, parlando della morte, disse:

«Il male, dunque, che più ci spaventa, la morte, non è nulla per noi, perché quando ci siamo noi non c’è lei, e quando c’è lei non ci siamo più noi».

Ma… a quella donna vestita di nero, con la falce in mano, tanto cattiva, così odiata e respinta, Francesco, nel celebre Cantico, la chiamò sorella:

«Laudato si’ mi’ Signore per sora nostra morte corporale, da la quale nullu homo vivente pò scappare».

Donna velata di nero

Errando vai nel mondo eterno,

solitaria signora vestita di nero

col tuo mantello copri il volto alla vita.

Eppure sei la sola cosa certa

della nostra natura

la meta di un viaggio…

e finisce la corsa.

Arcana madre dell’antico dolore

vano rimembrare quel che fummo

stupendamente la vita

naviga il pensiero.

E il nome tuo

oh donna appare nullo 

al cospetto di tal beltà.