Auditorium gremito come non si vedeva da tempo in occasione di un evento culturale, segno che questo tipo di impegno sembra l’ultimo efficace per tenere accesa la fiammella della speranza in un’Area in cui troppo spesso si ha l’impressione di essere sul punto di precipitare in una fase preagonica.Grande soddisfazione di tutti.

Un’occasione anche per l’autore per mettere a nudo il suo pensiero sociopolitico, per socializzare eventi che lo avevano visto protagonista anche in ragione della sue militanza politica iniziata precocemente.

Il Gioffrè racconta vicende contemporanee alla sua esperienza giovanile e lo fa con l’avvedutezza di chi è stato presente in uno scenario del quale conosceva il back stage.

A stimolarlo anche interventi qualificati di intellettuali presenti, dr Vincenzo De Angelis e prof. Santo Scialabba, che hanno fatto seguito all’esemplare relazione della prof.ssa Caterina Nicita, intervallata da letture mirate di brani del libro ad opera della splendida Tosca Pizzi, ben sintonizzata con il clima del racconto.

A me  è toccato e tocca l’organizzazione, l’introduzione e  il coordinamento dell’evento.

Santo Gioffrè, medico, politico e qui nelle vesti di  scrittore,

nato a Seminara il 13/05/1954. Residente a Palmi

  • Laurea in Medicina e Chirurgia conseguita presso l’Università di Messina nel Gennaio 1981

Specializzazione in Ostetricia e Ginecologia presso l’Università degli studi di Messina nel 1985.

Diversi sono i corsi di specializzazione che ha frequentato

Autore di 10 pubblicazioni a carattere scientifico inerenti l’Ostetricia e la Ginecologia.

  • Impegno politico a diversi livelli: da assessore alla Provincia a Presidente di Consiglio comunale
  • Anche mecenate: è a lui che si deve la donazione del  terreno dove ha contribuito ad edificare una splendida chiesetta ortodossa;  per Seminara rappresenta un ricaduta di attenzione.
  • Scrittore

E’   autore di numerosi studi sulla storia, la cultura e le tradizioni popolari calabresi.

Con le sue ricerche e pubblicazioni ci fornisce consapevolezza sulla Calabria a partire da secoli lontani

Tra le sue pubblicazioni:

Gli Spinelli e le Nobili Famiglie di Seminara

Artemisia Sanchez, da  cui la RAI ha tratto una fiction televisiva.                                        Il Gran Capitan e il mistero della Madonna nera

La terra rossa

E ora, Santo Gioffrè,  edito da Castelvecchi, presenta

L’opera degli ulivi

Qui si  fa un passo avanti nella cronologia della storia:  la sua attenzione si proietta per la prima volta  a soltanto mezzo secolo addietro

“L’opera degli ulivi”.

E’ SOLTANTO IL  TITOLO MA E’ ANCHE LA PRIMA GRANDE INTUIZIONE LA PRIMA OPERA NELL’OPERA DELL’AUTORE.

I grandi boschi di ulivi della Calabria,

monocultura-coltura ereditata dall’antica civiltà greca,

CHE RACCHIUDONO SAPERI.

CHE SONO TESTIMONI DI TRAGEDIE.

L’attaccamento alla bellezza del luogo,

le necessità  economiche sottese,

sembra condizionino gli umani,

INVISCHIANO IN UN RICHIAMO sulle generazioni che pensano di …prendere altre strade

MA NON RIESCONO A DISTACCARSENE.

Ho fatto l’accostamento con una sorta di panteismo per poi scoprire nel videoclip …CHE ANCHE IL COMMENTATORE ERA ARRIVATO ALLA STESSA CONSIDERAZIONE:  una deità che si impianta e diventa destino inesorabile.

Siamo negli anni ‘70

La vicenda si sviluppa su due piani

A Messina, sede universitaria, lotte studentesche, lotte tra fazioni, sinistra, destra, P 38 come arma di difesa dagli avversari politici, ideali di cambiamento, desiderio di realizzarsi in una professione, profondo amore giovanile.

Nella Piana con i suoi ulivi secolari, le sue consuetudini ataviche, dove viene consumato l’assassinio del padre di Enzo il protagonista del racconto.

E’ un violento scossone, gli ulivi richiamano, il melodramma deve andare in scena.

Il copione richiama agli obblighi di discendenza, per non essere indegni agli occhi soprattutto della madre e dei fratelli.

L’amore giovanile non riesce ad influire.

Sebbene dica: “Tu sei l’amore di questa mia vita contaminata da veleni portati da acque stagnanti che hanno come sorgente l’inferno e come foce il nulla.

Tu sei dentro di me e io mi nutro solo della tua esistenza.

Occorre tenerlo fuori dal quella palude stagnante”.

Occorre sceneggiare la vendetta pur nella consapevolezza che questa avrebbe   segnato il proprio destino in una ulteriore vendetta di ritorsione, pur nella certezza che sarebbe andato incontro alla propria imminente soccombenza.

La vendetta si realizza con tutti i rituali, abito, cappuccio, arma … e segna il destino di Enzo.

Un destino che si compie, poco tempo dopo, proprio sulla scalinata del Rettorato di quella Università che lo aveva visto protagonista.

Enzo cade sotto i colpi della faida.

L’autore è apprezzabile in tutto il testo con espressioni di bell’effetto.

Oltre quelle menzionate

“il cielo, un domatore di luce, si rincorrono nuvole nere che lasciano intravedere il cuore spento dell’universo”

“Interrompere la linea del sangue”

“ma nella sua testa si aprì una quaresima d’inferno”

“quale anima malata avesse quella terra”

L’ultima pagina, che descrive l’assassinio di Enzo, è una bellissima pagina di letteratura per la forza espressiva e la capacità di coinvolgimento.

Ma Santo Gioffrè non è un cronista, è uno scrittore, e … non poteva che essere così.

Ritengo che “L’opera degli ulivi” più di ogni saggio, più di tante analisi politiche, senza indulgenze didascaliche, con il coinvolgimento, concorra a stimolare un rinascimento umano, considerato che negli ultimi 25 anni abbiamo visto diminuire il livello etico e culturale con conseguenze pericolose.

Riportiamo la relazione copiosa della prof.ssa Nicita. Insieme al prof. Santo Scialabba, alla prof.ssa Rosa Marrapodi, alla prof.ssa Antonella Genova, compone il poker vincente di critici letterari di cui ci avvaliamo in occasione dei tanti eventi organizzati come UTE-TEL-B e deliapress.it.

Ed ecco la relazione della Nicita.

Ringrazio tutti per essere qui, il  prof. Cotronei per il suo impegno culturale volto a favore di questo paese, un saluto particolare va alla mia amica   Giosy Careri per l’opportunità dataci di conoscere personalmente lo scrittore Santo Gioffrè, alla mia amica Tosca per la sua preziosa collaborazione e allo scrittore stesso per l’omaggio reso alla nostra terra, così tanto vituperata, vilipesa, perché con le sue opere sia  storiche che sociali l’ha fatta uscire dall’isolamento culturale e l’ha posta su un elevato livello letterario.

La Calabria che tanto amiamo, nei secoli ha generato cultura con  Barlaam, Leonzio Pilato, Campanella, Seminara, Alvaro, Crupi, Criaco, Abate, Dara, e questo per citare solo alcuni dei suoi figli più conosciuti che, come affermava il professore Pasquino Crupi, l’hanno collocata ad una giusta dignità letteraria e hanno contribuito a quella linea di continuità che parte dalla lontana cultura greca e latina e arriva ad oggi.

Oggi noi, grazie alle loro opere,  possiamo riflettere su tanti problemi ma soprattutto su un mondo abbandonato dalla storia ufficiale e relegato ad un respiro subalterno, ma ricco di fermenti culturali e di messaggi positivi che   dobbiamo sapere cogliere. E proprio grazie alla cultura che possiamo recuperare la nostra fierezza d’animo, la creatività narrativa in uno sforzo collettivo per rendere giustizia a questa nostra Calabria con la consapevolezza di ciò che siamo stati e di ciò che riusciremo a costruire con la nostra libertà di pensiero.

Dopo tanti romanzi storici di Santo Gioffrè, come Artemisia Sanchez, di cui la Rai ha fatto nel 2008 una fiction con le musiche di Lucio Dalla, come Leonzio Pilato, Terra rossa, Il gran capitano e Il mistero della Madonna nera, ecco l’Opera degli Ulivi dal taglio sociale che ci proietta negli anni di piombo del sud, gli anni 70, con le sue lotte studentesche, il dominio della ‘ndrangheta, la fine del lati fondo, l’avanzare della mafia imprenditoriale.

Sono anni questi in cui lo stato rinforza i legami con i movimenti eversivi di destra, rendendosi complice del freno ad ogni cambiamento di giustizia sociale.

Il romanzo l’Opera degli Ulivi dallo stile curato, ricco di similitudini , dalla lingua accessibile con alcune coloriture dialettali, si fa leggere con  avidità e curiosità.

Le immagini scorrono davanti ai nostri occhi come quelli di un quadro realista e le azioni sono proiettate in un paesaggio idilliaco, paesaggio che diventa metafora di un rifugio rasserenatore  dei problemi della vita.

Nulla sfugge all’occhio indagatore di Santo Gioffrè, il suo sguardo coglie mille aspetti di quelle realtà  che ci consegna  con  una implicita distinzione manichea tra ciò che va fatto e ciò che si deve evitare. Salta subito all’occhio un dualismo narrativo, atmosfere oppositive, con tinte fosche quando racconta di odi mai sopiti, con tinte calde quando traccia sentimenti umani come l’amore, la solitudine, la paura.

Le prime pagine del romanzo ci riportano a Messina, città che l’autore chiama “signora  di una stirpe Imperiale”, un accecamento di luce, ma quella mattina il cielo sembrava volesse trattenere la sua luce, quasi presagio di una storia che inizia bene econ la convinzione della validità di idee del protagonista, Enzo Capoferro, idee che avrebbero cambiato le sorti di questa terra, invasa da vermi e dai confidenti del potere ma essa poi  finisce nelle più grande e tragica delusione: la faida.

L’università di Messina, con le sue attività illegali, come la vendita degli esami a 500.000 lire, il controllo e la gestione della casa dello studente, e una miscela esplosiva di forze eversive ed Enzo si fa coinvolgere con la piena consapevolezza di volerla e poterla cambiare, le sue idee rivoluzionarie sarebbero bastate, senza cedimento alcuno, a combattere tale strapotere e riportare una vera giustizia collettiva.

Egli aspira alla laurea in medicina, laurea che diventa salvezza, testimonianza del desiderio di una vita normale, un proseguire sulla via del progresso; a questa è stato spinto dal padre, Giuseppe Capoferro, che vuole un figlio medico, non quello comunista che era diventato dopo essere stato a Roma.

Enzo era andata a Roma per recuperare un anno di liceo e  li si era fatto coinvolgere da Autonomia Operaia, una cellula comunista di osservanza stalinista. Li aveva provato l’esperienza di scontri di piazza con i fascisti,  aveva appreso le tecniche di resistenza alle cariche di polizia, ma soprattutto aveva conosciuto problematiche diverse da quelle della sua terra, dove essere di sinistra aveva significato partorire l’epopea contadina che inneggiava alla lotta contro i ricchi proprietari di latifondi.

Vive ora a Messina, alla Casa dello studente, controllata dalla mafia che impone leggi e omertà, lotta con l’eversione internazionale rappresentata dagli studenti Greci che appoggiano la politica dei colonnelli, conosce la massoneria che governa l’università ed alcuni esponenti della malavita che ne controllano  la mensa.

E’ proprio dalla mensa che parte l’attività politica in città di Enzo che con coinvolgente oratoria invita i compagni  ad occupare l’opera universitaria, dopo che un collega aveva trovato uno scarafaggio nel vassoio.

Situazione iniziale alquanto grottesca, inizio oggettivo e fattuale che richiama lo scrittore Emilio Gadda con il suo elemento satirico, il suo volere trovare una necessità che porterà all’azione. Enzo appartiene a quella generazione del ’68, convinta che gli alti ideali di giustizia sociale, di cui   era nutrita, avrebbero cambiato le sorti dell’Italia in genere e anche del Sud, facendolo uscire da quella mentalità inquietante generata dalla presenza della ‘ndrangheta.

Enzo è originario della Piana, come molti colleghi, amici e compagni di partito, terra dove la nuova cultura rivoluzionaria si scontra con quella stagnante dei padri che, per un motivo o l’altro, vivono realtà sociali arretrate è dominate dal retaggio atavico della vergogna, dell’offesa subita da riscattare per trovare la pace dell’animo ed essere tra quelli che contano.

La vergogna dell’oltraggio subito non nasce propriamente nella Piana o nel Sud, ha origini antiche e sembra uscita dall’iliade, dall’Odissea, dalla tragedia greca le cui corifee sono ora le donne.

Essa unita alla tracotanza, all’ibris, insegna ad uccidere per dimostrare il proprio potere.

Enzo è un brillante studente, bello, innovativo, rivoluzionario, capace di essere un leader del Movimento studentesco universitario, si lascia coinvolgere per maledizione  o scelte imposte, in un sistema di violenza, di vendetta, che non gli appartiene, che forza il suo animo e gli si infila nel petto come il veleno di una tarantola.

La sua famiglia è colpita da un dolore rinnovato, la morte violenta e poi la profanazione della tomba del padre Giuseppe, che un tempo aveva fatto parte di una consorteria di ‘ndrangheta, aveva visto cadere prima il fratello e poi altri parenti, ma non era mai entrato in conflitto con le altre famiglie malavitose, anzi aveva creato per i figli un’impresa agricola e li aveva  indirizzati sulla via dell’onesto lavoro.

Nell’acquisto del fondo Pardeo era stato favorito dal marchese del posto, suscitando la rabbia dei D’amantea, sentimento che si sarebbe placato solo con la sua morte.

Da qui in poi una serie di delitti che fanno della Calabria una terra non libera e nemmeno umana, il sangue chiama sangue, chi ha fatto mangiare terra, dovrà mangiare terra anche lui, la ‘mpamità si lava con altra ‘mpamità .

Nella famiglia Capoferro, come nel Sud in genere, la vendetta è una regola, è mito, è alla base di ogni comportamento culturale, ma non viene mai giustificata da Santo Gioffrè  che si sforza di capire come essa possa albergare   nell’anima dei personaggi e li possa avvelenare, vendetta che, secondo lo studioso di tradizioni popolari, professor Lombardo Satriani, rientra nella strategia di difesa e attribuisce uno status alla famiglia colpita da morte violenta oltre che dare la pace dell’anima.

Tutti esortano alla vendetta, anche le donne, infatti la nonna ricorda i particolari della catena di morte che ha segnato la sua famiglia e racconta con odio e disprezzo gli episodi, la madre Gianna che con atteggiamenti e parole, come fosse una persona che conta, spinge i figli ad uccidere quei due cani lordi, altrimenti dimostrano di essere debbuli, vigliacchi, ‘mpami.

Questa madre sembra la custode di antichi retaggi sentimentali, culturali, la garante dell’onore  del maschio.

Intona il richiamo alla vendetta Gianna, il suo ringhio è legge, tutti ascoltano e pensano al da farsi, Paolo, Nicola, i cugini, gli zii, mentre Enzo  prova rabbia, si sdoppia il suo animo, egli vuole un mondo nuovo, non un antistato, le sue ribelli passioni politiche sono lontane da quella mentalità di morte, ma il senso dell’onore vissuto dalla famiglia lo  invischia in una lotta che sa di antistato.

Neanche l’amore per Giulia, studentessa di lettere, lo salva, quell’amore che ossigena  le ossa e offre un’oasi di felicità. Giulia che stenta a capire, ma intuisce la verità e non chiede nulla, asseconda Enzo, muta, servizievole, consapevole che tale sentimento non è un riscatto, ma verrà risucchiato dalle tragiche vicende.

Non le rimane altro che regalare momenti di purezza in cui fare dissetare l’animo buio ed inquieto di Enzo che  non la vuole coinvolgere per lasciarla in quel mondo che è speranza per il futuro.

La vendetta si è ormai impossessata del giovane consapevole del fatto che essa genererà  male in una catena infinita che verrà spezzata solo dalla morte. Vede i fratelli, combattuti anch’essi, chiedersi cosa fare e poi scegliere il consiglio di don Sebastiano, personaggio di spicco minore del paese, rispettato per la sua saggezza e  che, con la parabola  dell’ulivo, in tono obliquo, invita a muoversi e a parlare solo “se le parole dette saranno più belle del silenzio”. (quinta lettura pagina 29

Queste parole dette e non dette orientano il fratello Nicola che, obtorto collo, si mette ormai in prima fila e   fa  prevalere la logica del sangue, della latitanza.

Cadrà il fratello ed altri parenti,cadrà il giovane Enzo,  spara la lupara che sostituisce la P38, mentre gli ulivi osservano muti e sembrano disprezzare gli uomini e il tempo con le loro eterne fronde grigie che tanto hanno visto.

Fratelli che il padre  aveva  saputo tenere lontano dalla malavita  ed aveva educato al bene e all’onestà,  cadono ora di fronte alla nuova realtà, nella trappola della paura, dello sterminio, della solitudine.

L’evoluzione del  pensiero umano era ancora ferma  a quella forma di antistato che era stata  generata sin da lontano ‘800 come risposta alla mancanza di risposte da parte dello Stato ai tanti suoi nproblemi.

Nata da una giusta causa sociale, come ben affermavano Franchetti, Massara, Fortunato, essa si era trasformata, nel tempo, nel potere politico della famiglia dominante del momento, capace di ogni azione e  anche di collusione con lo Stato pur di arricchirsi.

Enzo, educato ad una vita diversa, viene spogliato di questa nuova identità e diventa come i fratelli, come gli altri. Emblematico è  l’episodio in cui Nicola gli fa togliere l’eskimo e lo costringe ad indossare una giacca alla maniera dei latitanti e gli mette in mano un fucile.

E così il giovane Capoferro che aveva impugnato la pistola per difendersi dagli studenti controrivoluzionari, ora lo fa per uccidere, aspetta con ansia di farlo, obbedisce ad altre regole e rientra nelle rango che la famiglia ha deciso per lui e nel quale sembra trovarsi a proprio agio e con la consapevolezza della sua prossima fine.

Tutti personaggi vengono scavati nel loro intimo da Santo Gioffrè, sia quando essi amano, sia quando decidono, sia quando uccidono.

L’autore   si trasforma in un indagatore dell’animo e lo fa non per giustificare le future azioni, ma per cogliere l’essenza dell’essere calabrese con la sua cultura greca radicata nelle viscere e contro cui non potevano ancora nulla il nobile sentimento dell’amore, i nuovi e giusti propositi sociali.

C’è biasimo per questo mondo da parte dell’autore e nella profonda analisi psicologica dei rapporti umani non troviamo giustificazione dei fatti violenti, che comunque sono sempre da condannare, come lo è pure lo stato assenteista allora come oggi.

Basta ricordare le parole di Enzo alla domanda del camionista di Bolzano,  che gli aveva dato un passaggio verso il pontile, sul perché in Calabria ci si ammazza ancora come i cani: lo Stato non è un guaritore di queste terre, è solo un assistente al capezzale del moribondo.

Dove era finito Enzo, il suo idealismo? Tutto era svanito, assorbito dallo spargimento del sangue e dal sottile piacere della vendetta.

Nulla era servito a cambiare nulla, concezione queste di antica memoria gattopardiana che potrebbe gettare tutti noi nello sconforto, ma la negatività delle azioni violente compiute è già di per sé una condanna e uno stimolo alla Rinascita civile.

Condanna reclamata già anche da Sciascia che dipingeva il silenzio dell’omertà e definiva  reazione e risposta perfettamente omertose come   simbolo del male.

Tutto è inevitabile in una società tragica e immutevole, il modo di essere, di pensare e di agire perché essa è soffocata dall’abitudine di chiudere gli occhi   di fronte a quanto accade, dalla diffidenza verso la legge.

E’ contro quella società, stritolata dall’illegalità, è contro questa di oggi, in cui le istituzioni si limitano a guardare il Sud come un assistente al capezzale di un moribondo, che si eleva la voce di Santo Gioffrè, voce che noi dobbiamo cogliere e che va contro quelli che il sociologo statunitense Edward Banfield chiama “i dettami del familismo amorale”. Questo è il compito della cultura, e Santo Gioffrè adempie pienamente al suo compito civile raffigurando un mondo, denunciandone  la sua logica, per consegnare un messaggio di alta civiltà e  un  futuro migliore per noi tutti.