I bambini delle passate generazioni vedevano la notte dei morti come un momento di attesa e di gioia.

Un enorme paradosso se si tiene in considerazione quello che il 2 di novembre rappresenta per la tradizione cristiana, la Commemorazione dei defunti.

Un giorno di preghiera, di ricordi e tanta tristezza al pensiero di chi ormai non c’è più. Ognuno di noi ha avuto e ha una lapide sulla quale posare un fiore.

Eppure “i figghjoli” attendevano questa notte, informandosi in famiglia se anche per loro ci fosse qualche parente morto.

Ma perché tanta premura?

 In alcune famiglie, era tradizione lasciare la tavola apparecchiata la sera della festa di Ognissanti, perché si credeva che durante la notte “chi brisciva u jornu di morti”, i parenti defunti si ricongiungessero con i vivi, tornassero a casa dall’altro mondo e quindi si faceva trovare loro qualcosa da mangiare: un torso di pane, formaggio, olive, un bicchiere di vino e quello che si aveva.

Però “i ‘mbiati morticeddhi”, per non far avere ai bambini timore di loro, gli portavano giocattoli, scarpe nuove, soldini e dolcetti o quello che potevano permettersi.

E chi prendeva sonno?

Si prestava attenzione ad ogni minimo rumore, tra un senso di eccitazione, paura e curiosità. Chi aspettava la nonna morta anni addietro, chi lo zio, chi il nonno della madre morto in guerra, ognuno aveva un caro morticeddhu da attendere in quella notte.                                                                                                                                           Finalmente giorno! La mattina del 2 novembre tutti i figghjoli a guardare sotto al letto o in ogni angolo della casa e poi via a correre fuori nella “ruga”. Un vociare all’unisono e smorfie di stupore e contentezza, “Chi ti purtaru i morti?”

E tutti a mostrare il dono ricevuto.

<<Nonna, quando eri bambina tu, cosa ti portavano i morti?

(A Palizzi) Giravamo casa per casa, bussando alle porte dei vicini e loro ci aprivano per donarci durciceddhi e sordi: “tò figghju pe’ l’anima di di morticeddhi sutta terra.>>

A Gallicianò, nel cuore dell’Area Grecofona, ancora si conserva una lunga tradizione, quella dell’ Ajeluci, il Fuoco santo che riscalda le anime dei defunti. Davanti la Chiesa di San Giovannino, sopra la piazza, si fa ardere il fuoco con la legna che ciascuno dona in memoria dei propri defunti. Il fumo del fuoco va verso il cimitero del paese a riscaldare le anime dei morti che dormono il sogno eterno:

Ajeluci

Ardente il fuoco

brucia l’ombra del cipresso,

lingua di fuoco rivolge ad ogni anima il nostro pregare.

Viali si aprono in un corridoio di fiori e profumi,

nel ricordo della vita.

Oh cero che palesi l’ultimo scatto di sorriso quanto cara e amara ti è  questa tua luce!

Non importa fosse un figlio tanto amato,

padre o madre di bontà loro

o cari nonni adorati, 

dormono tutti insieme

per un assurdo volere divino,

in un luogo sacro

tanto lontano dal loro vivere.

Lasciano i sepolcri per una notte appena

si ritrovano,

come un tempo,

davanti al fuoco a raccontare

vecchie storie ad ogni bambino che buono buono con gli angeli sta li a giocare.

Nel calore di un altro abbraccio

la speranza si fa spazio,

non sarà mai un ultimo saluto

se Ajeluci  risplende.

Non sarà mai un addio

se il santo fuoco continuerà a riscaldare le loro anime

e alle nostre darà luce per poterli rincontrare.