di Pasquale Casile

Come già saprete, il 9 agosto alle ore 21, in Piazza delle Tre Chiese, a Gerace, sì è svolta la nostraseconda serata del Bicentenario, intitolata “Dialogo sotto le stelle”, prendendo spunto dal libro“LA VERA ORIGINE DELLE FIABE. Frammenti di un mondo perduto” di Paolo Battistel, docentedi Fenomenologia delle religioni.
Io e l’Autore – coadiuvati nel dibattito dalla brillante moderatrice Marisa La Rosa e dal maestro scultore Tony Custureri – abbiamo discusso a lungo appassionatamente, affrontando innumerevoli tematiche relative ai racconti tradizionali del “focolare”, viaggiando in parallelo tra i miti, le leggende e le fiabe del mondo grecanico e quelle ben più note (per via delle saghe cinematografiche e televisive) del Nord Europa. Ci siamo inoltrati nei brumosi sentieri dei boschi narrativi delle antiche civiltà, percorrendo gran parte dello spazio eco-linguistico della Calabria greca, dove da sempre – ab illo tempore – regna sovrano il lupo. L’avventuroso viaggio è talmente piaciuto al pubblico, che ancora ricevo sui social media richieste specifiche di approfondimento. Tra le domande più frequenti, ce n’è una, abbastanza ricorrente, che quiriferisco utilizzando le parole entusiaste di Eva Scelli Zuzolo, la quale mi scrive:
Gent.mo prof.re Pasquale Casile,
è stato un immenso piacere conoscerla durante il Bicentenario.
Avrei piacere di poter approfondire come la figura del lupo ricorra spesso nei miti e nelle culture,discorso che stavamo affrontando durante la fine della serata, ma poi interrotto…
Eravamo rimasti a come il lupo ritorni anche nella parola “Musulupara”, oggetto tipico calabrese per fare il formaggio, durante il periodo di Pasqua.
La ringrazio ancora tanto.
Spero di rivederla presto.
Sono lieto di avere sollevato insieme a Paolo Battistel tanto interesse sulla figura del lupo,
primigenia immagine archetipale del Caos e della Notte cosmica. Appena il Sole tramonta, giàal crepuscolo, denominato in greco-calabro licofossi (toponimo di Bova) – che non significa“fossa dei lupi”, come scrive il Rohlfs (Dizionario Onomastico e Toponomastico della Calabria, p.158) bensì “luce del lupo”, dal gr. lykòfos (λυκόφως) – percepiamo la presenza dell’animale più inquietante e affascinante delle fiabe, il quale ci spinge a seguire la via del bosco, dove anchel’uomo, talvolta, irretito dalla natura selvaggia, può divenire lupo: lupo mannaro appunto (lupus hominario > ‘pominario’ in molti dialetti dell’Italia meridionale).
Il bosco è quindi il luogo per antonomasia, per vedere da vicino il lato oscuro dell’umanità,
l’altra faccia della Luna, dove non penetrano agevolmente i raggi del Sole e si vive immersi nel tempo ciclico delle stagioni, in una dimensione perennemente umbratile. Recita infatti un proverbio grecanico: I nista ène ja tu llìku (Η νύστα έναι για του λ-λύκου) “La notte è per i lupi”
(G. ROSSI TAIBBI – G. CARACAUSI, Testi Neogreci di Calabria [TNC], Palermo, Istituto Sicilianodi Studi Bizantini e Neoellenici, 1959, p. 372).

La notte e – aggiungiamo noi – la fame. Lo descrive bene nel 1862 il medico e antropologo Cesare Lombroso, nel suo libro “In Calabria”, appena giunto nelle remote pendici dell’Aspromonte meridionale greco, deviando il suo cursus scientifico alla ricerca del gene criminale. Egli ha la ventura di vedere e di documentare per primo “Il rito che v’è in uso coi bambini affetti da bulimia” che consiste nel cantare a squarciagola (a imitazione dell’ululato del lupo), disposti in cerchio intorno al bimbo malato, agitando verso di lui ghiotte ciambelle, salmodiando la seguente litania, tesa a placare la voracità lupina: Fa’, ce pìe, ce chortàse. Αdàfi’ ta likopiàsmata (Φά’ κ́αὶπίε’, κ́αὶχορτάσε. Αδάφη’τα λυκοπιάσματα) “Mangia, bevi, e satollati. Lascia il cibo del lupo” (Cesare Lombroso, In Calabria, Cav. Niccolò Giannotta editore, Catania 1898, p. 13).
Il cibo del lupo, in greco bovese licopiàsmata (λυκοπιάσματα), cibo ingoiato compulsivamente, tutto d’un fiato, che non sazia mai, sintomo patologico di licoressia, la cosiddetta “fame da lupo”,<fame atavica, mero istinto primordiale a cui si obbedisce ciecamente, e che alla lunga o fa deperire, o rende chiunque homo homini lupus.
Conclusa la premessa, veniamo ora al termine Musulupu. Qual è il significato etimologico del suo nome? Per rispondere a questo cruciale quesito, dobbiamo prima esaminare attentamente le definizioni tecniche che ne danno le organizzazioni nazionali più importanti in materia di cibo, gusto e cultura alimentare (ONAF, Organizzazione Alimentare degli Assaggiatori di  ormaggio http://www.onaf.it/index.phpc=index&a=schedaformaggio&id=1120; Slow Food
https://www.fondazioneslowfood.com/it/arca-del-gusto-slow-food/musulupu/ ecc.) le quali – per quanto ci è dato sapere – non si discostano dalla scheda sintetica contenuta all’interno del sito Ente Parco Nazionale dell’Aspromonte
(http://www.parks.it/parco.nazionale.aspromonte/dettaglio_prodotto.php id_prodotti=3545
), che alla voce formaggio musulupu riferisce:

Formaggio tradizionale da tavola di origine greco-albanese, il musulupu o anche musulucu si produce su richiesta tra marzo e settembre nei paesi interni della Locride, sul versante orientale dell’impervio Massiccio dell’Aspromonte, in provincia di Reggio Calabria. Secondo un’anticatradizione il nomignolo musulupu deriverebbe dall’antica lingua grecanica parlata in queste zone della Locride, con significato di “boccone del lupo”. Caratteristiche nella produzione di questo antico formaggio sono le “musulupare”: gli stampi in legno in cui viene collocato il coagulo ottenuto dal latte. Queste possono assumere diverse forme femminili, tra le quali le mammelle o il profilo di una donna. Le musulupare sono intarsiate a mano e richiamano al culto della Madre Terra, che veniva venerata dalla cultura greco-ortodossa e grazie alla quale, secondo le credenze  popolari, gli uomini potevano ogni anno ottenere un buon raccolto e buoni prodotti trasformati, come il formaggio. Il musulupu si ottiene dalla lavorazione del latte misto di pecore e capre allevate al pascolo, è un formaggio fresco, senza stagionatura, dura pochi giorni e viene consumato insieme alle verdure di stagione, sulla pasta oppure come ingrediente di base per dolci tradizionali della Locride.
Dopo avere letto più volte il testo, devo sinceramente dire che almeno due dati non mi
convincono: 1) si dice che il musulupu sia un formaggio tradizionale da tavola di origine grecoalbanese; 2) il nomignolo musulupu deriverebbe dall’antica lingua grecanica parlata in queste zone della Locride, con significato di boccone del lupo.
Partiamo dal secondo punto. Nessuno, tra quanti citano tale significato, ha mai fornito una
spiegazione valida o una ricostruzione storico-etimologica del perché al vocabolo musulupu,
dovrebbe corrispondere il termine composto “boccone del lupo”. L’ipotesi pertanto, sebbene
sia suggestiva, allo stato dei fatti, appare destituita di ogni fondamento scientifico; tant’è vero, che in altre schede tecniche sul rinomato latticino, figura spesso il termine “boccone del lupo” con velato o palese scetticismo, assieme all’ipotesi etimologica espressa dal Rohlfs, che propone una derivazione dall’arabo maslūq “cotto” (Gerhard Rohlfs, Nuovo Dizionario Dialettale della Calabria, Ravenna 1990, pp. 423). Il musulupu o musulucu (come più correttamente dicono a Gerace) è invece a nostro avviso, il più antico formaggio rituale di cui rimane segno tangibile (ed edibile) attualmente nel Mediterraneo greco. Troviamo impressa la sua storia magnifica, nei simboli e nelle lettere del greco arcaico, che ne compongono il nome. Esaminiamo la sua pittoresca figura.
(Immagine tratta dal sito https://www.foodmission.it/la-tradizione/musulupu-boccone-di-lupo/)
Sia nelle forme circolari, che nella figura femminile in rilievo, notiamo che l’elemento anatomico più in vista di questo formaggio antropomorfo è il seno materno, con un capezzolo centrale
all’apice (nei due manufatti circolari), e un numero variabile di altri capezzoli più piccoli ai lati.
Ecco che per comprendere l’etimo, dobbiamo prima delineare la sfera di concatenazioni
semantiche che hanno tutte a che fare con il seno, i capezzoli e le mammelle nella lingua greca, prima di dare una soluzione etimologica. La parola “seno, capezzolo” ancora oggi in greco si dice μαστός (mastòs), termine colto, che entra anche nella lingua italiana attraverso il lessico medico (mastite ad esempio, “infiammazione del seno”). Ebbene, μαστός (mastòs), vale a dire “mammella”, è anche il nome di un antichissimo recipiente utilizzato nei simposi, già nel VI sec.a. C.
μαστός (mastòs) coppa, 520 a. C.
(The Metropolitan Museum of Art. https://www.metmuseum.org/art/collection/search/255543)
Quindi, a questo punto possiamo asserire che musuluca / musulucara è il nomen vasis di un
antico contenitore in legno per il latte e i latticini, appartenente ad un cerimoniale diverso dal
simposio, ma affine per denominazione al mastòs.
Oltre al tipo μαστός (mastòs), abbiamo nel greco ionico di Omero e in Teocrito (3, 16)il termine μαζός (mazòs), con la variante dorica μασδός (masdòs) per il capezzolo femminile, e μασθός (masthòs) per il capezzolo maschile che non contiene il latte (Licofrone 1328). Comunque, se come abbiamo dimostrato, tra ordo verborum e ordo rerum qui esiste una precisa corrispondenza, il primo elemento di cui si compone la parola musulucu / misulucu è il succitato vocabolo nella forma μυζός (myzòs), forma ‘popolare’ che entrerà nel greco demotico, attraverso la seguente evoluzione fonetica: μυζός (myzòs) > βυζός (vyzòs) > dim. βυζίον (vizìon) > βυζί (vizì). Pertanto la voce musulucu / misulucu è il risultato dell’unione d sostantivo μυζοῦς (myzῦs) all’accusativo plurale + il sostantivo λύκου (lýku) al genitivo singolare. Il termine *μυζουλύκου (muzulùku) perciò, preso alla lettera, ha il significato di“mammelle, capezzoli del lupo”. Sullo sviluppo fonetico del vocabolo *μυζουλύκου (muzulùku) in mussulucu / mussulupu, bisogna pensare a una risemantizzazione dovuta all’influsso analogico del dialetto calabrese mussu “bocca” e lupu “lupo”, che provoca uno slittamento di significato e dà luogo al neologismo semantico mussulupu / musulupu “muso del lupo”, con l’alternanza delle forme mussulucu / musulucu presenti nelle aree conservative dove è più fortel’influenza della lingua greca. La forma μυζοῦς (myzῦs) all’accusativo plurale, non deve ovviamente sorprenderci; la ritroviamo infatti nella denominazione di molti alimenti, specialmente nei nomi tradizionali di antichi dolci come i σησαμοῦς (sesamῦs), i πυραμοῦς (pyramῦs) ecc. D’altronde esisteva già in età arcaica a Creta, un altro famoso esempio di formaggio magro e appiattito, assai simile al nostro musulucu, denominato θηλεῖαι (theleῖai) “femminelle, capezzoli”, che veniva offerto in sostituzione dei sacrifici animali, secondo l’usopitagorico che prescriveva il divieto  assoluto di uccidere durante le sacre cerimonie (cfr. Ateneo, IV 52 e 161 d).
Questa interessante notizia ci fa comprendere che il musulucu non è un semplice alimento, un latticino confezionato per il consumo ordinario, ma un formaggio cerimoniale, utilizzato nei sacri riti religiosi, che rispecchiava gli stessi principi ideologici, veicolati dalle antiche Società pitagoriche calabresi. La cosa diventa del tutto evidente se analizziamo la radice verbale da cui deriva il vocabolo greco μυζός (myzòs). Dalla radice μυδ (myd) del verbo μυδάω (mydào) “essere umido, essere bagnato”, abbiamo il verbo μυζάω (myzào) “bere a labbra chiuse, poppare, succhiare la mammella”, che a sua volta condivide la radice μυ (my) con il verbo μύ(myo) “tenere la bocca chiusa, stare in silenzio”, da cui provengono anche i termini μυστήρια (mystéria) “misteri, cerimonie religiose segrete, riservate ai soli iniziati” e μύστης (mýstes) “iniziato ai sacri misteri”. L’ambivalenza semantica del termine μυζός (myzòs) / μυζάω (myzào) “bere a labbra chiuse” e “tenere la bocca chiusa”, spiega bene la funzione cerimoniale che aveva il musulucu sin dall’antichità: durante i riti misterici, il suo consumo doveva servire a propiziare il digiuno rituale, e a far tenere la bocca chiusa ai fedeli iniziati alle pratiche religiose segrete. In buona sostanza il musulucu non era ritenuto dai nostri antenati greci uncibo, ma una “bevanda solida”. La bevanda dei “capezzoli del lupo” che non sazia né nutre. Bere, non è mangiare. Perciò nessun tabù alimentare veniva violato. Preparato al mattino, in forma soprattutto di disco orario (ogni mammella occupa uno specifico quadrante del tempo rituale), veniva spezzettato (fractio) a intervalli più o meno regolari nell’arco dell’intera giornata di nysteìa, portando in bocca, una mammella alla volta, per succhiare senza masticare l’organo latteo, favorendo il digiuno e il silenzio mistico. Ecco perché lo ritroviamo ancora oggi nei giorni del periodo quaresimale.
Niente collega il musulucu alla tradizione greco-albanese: né il nome, né il simbolismo, né la forma della figura femminile con i seni scoperti, la quale è invece una chiara rappresentazione iconografica della Grande Dea neolitica che diviene a distanza di millenni:Signora degli animaliselvatici (Potnia Theròn), in età minoica; Artemide polimastia, in età micenea; Persefone, Signora regina degli inferi, in età magnogreca. Leggiamo infatti nelle lamelle auree provenienti dal “Timpone Piccolo” di Thurii (Sibari), databilitra il IV ed il III sec. a. C., le seguenti espressioni che gli archeologi e gli studiosi considerano enigmatiche: “Mi sono rifugiato nel seno della  Signora, regina degli inferi (=Persefone)” e “capretto sono caduto nel latte”. Il latte è qquello del musulucu, con cui comincia il percorso iniziatico del miste, che ha come obiettivo quello di ricongiungersi, al termine della vita terrena, con il seno di Persefone per essere divinizzato, come accade nel mito di Eracle poppante, che acquisisce la sua immortalità, succhiando dal seno di Era dormiente; chi riceve il latte da una dea diviene subito immortale: “Allègrati, tu che hai sofferto ilpatimento: tale non mai prima soffristi.
Da mortale sei divenuto un dio: capretto verso il latte ti lanciasti”.
Grazie al musulupu / musulucu, possiamo finalmente comprendere il significato della frase “damortale sei divenuto un dio: capretto verso il latte ti lanciasti”, contenuta nelle lamelle   auree diThurii (Sibari), che allude all’iniziazione del miste e alla sua divinizzazione al termine della vita terrena, per mezzo del latte di Persefone, regina degli inferi. Il miste-capretto è l’iniziato al culto di Dioniso Zagrèo (èrifos, capretto, gr. cal. rifi; s. v. il mio libro “Dèi e Zangrèi. Gli Elleni di Calabria e i Lombardi di Sicilia. La lingua ferita, l’identità negata” ed. Amazon) connesso al Pitagorismo. Si tratta quindi di una sensazionale scoperta storica, non soltanto in termini linguistici o archeo-linguistici (come avrebbe detto il Rohlfs) che meriterebbe l’attenzione e l’interesse di tutta la Comunità scientifica, nonché della Rete dei Musei della Magna Grecia.
Questo è il contesto religioso in cui nasce il musulucu, il formaggio più antico della tradizione greca e magnogreca.

«ΑΛΛΟΠΟΝΤΑΜΨΥΧΗΠΡΟΛΙΠΗΙΦΑΟΣΑΕΛΙΟΙΟ
ΔΕΞΙΟΝΕ*Θ̣ΙΑΣΔΕΞΙΝΑΙ̣ΠΕΦΥΛΑΓΜΕΝΟΝ
ΕΥΜΑΛΑΠΑΝΤ̣ΑΧΑΙΡΕΠΑΘΩΝΤΟΠΑΘΗ
ΜΑΤΟΔΟΥΠΩΠΡΟΣΘΕΕΠΕΠΟΝΘΕΙΣΘΕΟΣΕΓ
ΕΝΟΥΕΞΑΝΘΡΩΠΟΥΕΡΙΦΟΣΕΣΓΑΛΑ
ΕΠΕΤΕΣΧΑΙΡΧΑΙΡΕΔΕΞΙΑΝΟΔΟΙΠΟΡ
ΛΕΙΜΩΝΑΣΤΕΙΕΡΟΥΣΚΑΙΑΛΣΕΑ
ΦΕΡΣΕΦΟΝΕΙΑΣ»
«Ma quando l’anima
lascia la luce del sole,
procedi diritto verso
destra
tu che hai ben tenuto a
mente tutti i (precetti).
Allègrati, tu che hai
sofferto il patimento:
tale non mai prima
soffristi.
Da mortale sei divenuto
un dio: capretto verso il
latte ti lanciasti.
Allègrati, allègrati tu
che procedi a destra
verso i prati sacri e i
boschi
di Persefone.»

(Lamina d’oro “orfica” Thurii (Pugliese Carratelli: II B 2)
Traduzione di Giovanni Pugliese Carratelli in Le Lamine d’oro
orfiche, Milano, Adelphi, 2001, p.112)

Lekythos apula a figure rosse attribuita al Pittore del Lattante con Eracle allattato da Era
addormentata (British Museum di Londra, ca. 360-350 a.C.).
Immagine: www.th

Per informazioni:
www.bicentenariogrecidicalabria.it