Nelle società contemporanee, dove la comunicazione corre veloce e spesso incontrollata, l’intolleranza verbale si manifesta come una delle forme più insidiose di degrado del dialogo pubblico. Le parole, quando diventano strumenti di aggressione e non di confronto, preparano il terreno alla violenza, fisica o simbolica che sia. Le frasi apparentemente innocenti, in particolare quando sono rivolte ad una donna, anche se non vengono percepite come aggressione, sono insidiose, subdole, perché producono l’effetto di sminuire.

Esempi ci vengono dagli incontri internazionali recenti dove rappresentanti dell’Italia sono stati trattati in modo, a dir poco, penoso.

L’abitudine a insultare, etichettare, delegittimare chi la pensa diversamente, non è soltanto un problema di educazione o di costume: è un sintomo di chiusura mentale. L’offesa verbale, l’ironia distruttiva e il disprezzo espresso a parole rappresentano la prima soglia oltre la quale il dissenso smette di essere civile e diventa ostilità. È un passaggio sottile ma pericoloso, perché normalizza l’idea che l’altro non meriti ascolto, rispetto o diritto di parola.

C’è la possibilità di un atteggiamento di ascolto che non è il semplice silenzio ma introspezione, quello che manca troppo, o di un atteggiamento conciliante per insinuare il dubbio.

Dalla violenza verbale alla violenza sociale il passo è breve. Le parole, infatti, non si limitano a descrivere la realtà: la creano, la orientano, la deformano. Quando il linguaggio si fa intollerante, anche la società lo diventa. Si costruiscono barriere, si consolidano stereotipi, si restringe lo spazio della libertà di pensiero. In questo modo, la chiusura mentale diventa collettiva: si smette di cercare la verità per schierarsi, di dialogare per comprendere, di dissentire per crescere.

Il problema che le strategie delle comunicazione tendono a fare schierare, a costruirsi gli zoccoli duri di consenso; in altre parole parlano ai propri elettori per assicurarsi l’appoggio sempre e comunque, serrano le fila per impegnarsi tutti innsieme e con determinazione.

Contrastare l’intolleranza verbale significa, quindi, difendere la democrazia e il pluralismo. Significa riaffermare che il linguaggio non è un’arma, ma uno strumento di confronto e di crescita reciproca. È un impegno che riguarda tutti — dai mezzi di informazione ai social network, dalle scuole alle famiglie — perché da come parliamo dipende, in larga misura, il modo in cui viviamo insieme.

Si cresce insinuando dubbi sulle proprie convinzioni, bisogna partire dal postulato che le proprie verità sono come gli imputati … vanno processate. Come gli imputati sono innocenti fino a prova contraria, così le nostre “verità” vanno accettate se sottoposte a reiterati processi di “falsificazione”, reggono.