Il profondo legame che da sempre l’autore nutre per il proprio paese e per i propri paesani, unitamente alla naturale  nomenclatura di tutto il variegato contesto ambientale, rappresenta il motivo conduttore di “ Luci Della Memoria”, Edizioni Nosside 2018, Ardore M.na, bella, corposa opera di Franco Blefari, geometra, affermato poeta e scrittore di Benestare ed anche apprezzato regista e popolare conduttore di  trasmissioni televisive locali. La pubblicazione, divisa in dieci sezioni e composta da ben 268 poesie in lingua dialettale,  ruota intorno all’ esperienze di un uomo sensibile e generoso che, malgrado gl’imprevisti dolorosi, guarda alla vita con ottimismo e tanta speranza. Partendo dalla sua infanzia e, via via maturando, fino alla “stagione” presente ed al “suon di lei”, Franco ci presenta una vastità di temi, d’idee e di contenuti, in cui, tuttavia, non ci si può smarrire, in quanto lui, con intelligente perizia, nel suo valido lavoro, segue un ordine sistematico e cronologico, attraverso cui prende il lettore per mano e, penetrandogli dolcemente nel cuore, lo conduce brillantemente fino all’epilogo dell’opera in un crescendo d’interesse e di stupore. Una sorta di “commedia umana”, in versione dialettale, quella scritta da Franco Blefari, la quale avvince ed  affascina per le  non comuni risorse poetiche del suo autore, il quale, dal terreno al divino, dai “dericati”, sue radici, “all’Ostia Santa”, sua ultima aspirazione, mantiene sempre lo stesso livello di stile e di liricità. Anche lui, Franco Blefari di Benestare, modestia a parte, come Dante nella Divina Commedia, si presenta, nell’opera “Luci della Memoria”, come un umile pellegrino, che tra vari peccati di gola, delizie domestiche, mazzate inattese, riesce ad arrivare alla meta, al confronto di Dio, di fronte a quell’’Ostia Santa che lo appaga pienamente nella sua profonda spiritualità. Canti dell’anima, le sue poesie, che scaturiscono da una non comune sensibilità, da finezza di spirito, da una profonda umanità. La poesia, infatti, è il canto del cuore, la coraggiosa esternazione dei nostri più reconditi pensieri e sentimenti, senza vergogna, senza ritrosìa, con naturalezza e semplicità, aprendo gli steccati convenzionali a quel fanciullino di pascoliana memoria, vivo e presente in tutti gli uomini, a prescindere dall’età e dalla razza, dalla lingua e dalla religione. Assieme all’autore, protagonista dell’opera, è, quindi, una umanità che si dibatte nel bisogno e nelle ristrettezze patiti dopo il secondo conflitto mondiale. Una collettività, quella rappresentata da Blefari, in miseria, sì, ma dotata di una incommensurabile dignità umana, che la porta con grande forza di volontà, tra rinunce e sacrifici diffusi, a raggiungere un equilibrio finanziario-economico decente, anche quando, suo malgrado, è costretta ad emigrare. Varca, infatti,  l’oceano in cerca di una sospirata fortuna che, comunque, sarebbe passata attraverso un lavoro duro e sacrificato ma sempre onesto e gratificante. I proventi di esso, invero, portano al sospirato riscatto sociale, consentendo di mandare i figli a studiare, appannaggio esclusivo, fino ad allora, dei notabili, di’ “figghjoli di dottori e potestati,/ chi parlavanu sul’u talianu”. Niente è facile per chi vive nel bisogno, per cui accontentarsi del poco che si riesce a conseguire diventa un’inderogabile regola di vita per chi, forte del proprio lavoro, aspira a cambiare “status” progressivamente. I quadretti di vita dipinti da Franco, affreschi con pennellature poetiche eseguite da  un artista nel verseggiare, inducono ad una riflessione e a volte, attesa la sacralità dei temi trattati, anche alla meditazione, al raccoglimento. La levità e  la finezza spirituale e, nello stesso tempo, la forza e l’incisività primitiva della naturalezza lessicale con cui egli riesce, infatti, a narrare i più salienti momenti della sua  esistenza, vigorosamente vissuta all’insegna di specchiata onestà, fanno, indubbiamente, capire di trovarsi davanti ad un esemplare “maestro” vecchio stampo, garbato e cortese, dalla personalità ben definita, ad un galantuomo d’altri tempi che merita rispetto per la caratura culturale-storico-morale posseduta. Didatticamente parlando, il testo analizzato meriterebbe, dunque, di essere adottato nelle nostre scuole come testo di scienze umane al fine di fare conoscere ai giovani di oggi le nostre radici, il nostro folklore,  le nostre più antiche tradizioni, ampiamente documentati nel libro. Il nostro dialetto, e non solo, rappresenta un insostituibile patrimonio storico-culturale territoriale, che non deve morire e non morirà grazie alla pregevole opera di Franco Blefari e di tutti gli appassionati di poesia dialettale che intendono seguirlo.  

(1964: Studenti della 5a B dell’IT per Geometri di Siderno al campo Sportivo del luogo. Da sinistra Franco Blefari di Benestare, Bruno Giovinazzo di Ardore, prof. Panetta (topografia) di Locri, Agostino Violi di Bovalino e Vincenzo Marrapodi di Bruzzano Zeffirio)

 

Nell’opera di Blefari,  itinerario umano e sociale, spesso la “vis tragica “  fa coppia con la “vis comica”. Tale convivenza di sentimenti esercita sul lettore un notevole potere emotivo, tanto forte da indurlo alle lacrime, la prima per la condivisione di una condizione di dolore che tocca il cuore, la seconda per il troppo ridere per immedesimazione nella comico-realistica rappresentazione poetica. Profondamente sentito il senso dell’amicizia nel libro di Blefari. Dedica affettuosi versi tanto a “Vicenzu d’A Catina”, un  laborioso contadino “bonistarota”, che “carrijava ligna e ciaramidi/ e, ‘ncavagliu ‘a sumera, jia volandu”, quanto a “Peppe l’Attore”, che aveva frequentato a Roma l’Accademia d’Arte Drammatica, che parlava di Medea mentre Franco “biverava pipi e pumadora”. Amante della buona cucina di un tempo, Franco, non sa rinunciare a “frittuli e gambuna” e nel mentre ci fa riscoprire antichi sapori e profumi  con gl’indimenticati “perciatelli ch’i sardi e tagghjarini ch’i fungi”, piatti che fanno la storia della cucina contadina, povera ma sana. La sua poesia è fatta, dunque, anche di “sgranate” e, da “prescialoru” buongustaio, di “doluri ‘i panza” per qualche piatto di “spaghetti ‘e fungi mbelenati.” Struggente è il ricordo dell’Argentina, “unicu postu aundi fu filici ” il nostro Franco. Lo scopriamo pezzo duro nel fisico, più rigido di un ramo di “livara bonistarota”, ma tenero e romantico nell’animo, intento a ballare “el paso dobles” e la “chacarera”  in una “tangheria” al chiarore “della luna ruffiana”. E tra i ricordi più belli  cantati nelle sue poesie vi sono quelli scolastici. Ne’ “L’urtimu bancu” rievoca momenti di vita in aula, dove ”arretu capu…’ndavia ‘a terza classi, figghj’’i contadini” con la loro parca colazione, “surici, ova fritt’e mmucciunati…e di voti…fica ntartarati”. Il primo maestro è come il primo amore, non si scorda mai e lui, Franco Blefari, da alunno devoto dedica un affettuoso pensiero al suo “professuri”, “chigliu da prima, don Titì Giuratu”, che agli alunni dava il cuore, “puru s’era di nobili casatu”. Ama Benestare, il suo paese, Franco Blefari, alla cui semplicità di un tempo lontano indirizza il suo canto malinconico. Nella lirica “Catoja” , “casi ‘i petra jibissina” ancora esistenti a Benestare,  la tristezza è tanta nel vederle vuote, prive della vita trascorsa, da sentire dentro di sé “na bampa antica, chi ‘nto cori gliuma”. Il rimpianto per quel passato di comunione paesana che non può più tornare, perché i tempi sono cambiati, gli divora l’animo, tanto da non fargli riconoscere più in quello di oggi il paese della sua infanzia, “ ‘i quandu ‘a genti si cogghjia ‘nta strata:/ cu’ parrava d’aratru e cu’ ‘i majisi/ e i fimmini ‘i talaru e di vucata”. L’immenso dolore del poeta Blefari per la scomparsa della figlia Elena si traduce in termini altamente lirici nei componimenti a lei dedicati. Grande, commovente, la sua tenerezza di padre nella breve ed intensa lirica “Vitti ca lampa”, un monumento d’alabastro di scuola antonelliana all’amore filiale, dedicata alla giovane, elegante, Elena, la sua “rondinella”, che non tornerà più dalla Lombardia a Benestare per riabbracciarlo. Vita vissuta, tutta la poesia di Blefari, in cui la paesanità, in termini di affettuosa coralità, si esprime ovunque, all’Ariaporu, davanti casa, per le strade. L’amore per i suoi paesani  bonistaroti si deduce anche dalle dediche ad essi fatte nella maggior parte delle poesie. L’opera, nel complesso, traduce sani principi morali e civili, l’esaltazione del lavoro onesto, l’amore per la famiglia e per la campagna, il rispetto per la persona umana, il sentimento dell’amicizia, della solidarietà e della fratellanza, vero, sentito e non di maniera, valori universali che accomunano gli uomini, bisognosi, oggi, di riappropriarsi di quella comunione di spiritualità che si è smarrita dietro le suonerie dei cellulari ed i monitor dei computer. La vastità dei temi trattati è tale da ritenere l’opera l’enciclopedia del poetabile dialettale del versante orientale ionico reggino. Con “Luci della Memoria”, Franco Blefari lascia il suo testamento umano e letterario, un’eredità non facile da continuare, attesa la grandezza della sua portata poetico- narrativa, frutto della sua sensibilità, del suo grande cuore, della sua sofferenza di uomo, di padre, di cittadino pulito con il coraggio di dire ad alta voce ciò che pensa.

Bruzzano Zeffirio, 12 Gennaio 2019