Era dalle sette che gli operai buttavano sangue nella vigna e il sole bruciava loro ora la fronte ora la schiena seguendo il ritmo del loro zappare. Un sole carogna peggio che ad agosto. Ma se si fermavano a bere un goccio d’acqua Don Cosimuzzu li guardava male, nemmeno fosse il vino delle sue botti. Non tollerava pause lui. ’Mpari Micu guardava il figliolo e malediceva il bisogno che costringeva quell’innocente a rompersi la schiena come e più di uno grande. E intanto si portava un po’ più avanti cercando, col suo corpo massiccio, di fargli un po’ d’ombra come fa la pecora con l’agnello. Sudava il ragazzo e il sudore che gli scendeva lungo le gote sostituiva le lacrime di fatica che per vergogna si teneva dentro.

  • Che bella giornata che è uscita! – disse Don Cosimuzzu sdraiato all’ombra della quercia.

 ’Mpari Micu, tra i denti, maledisse Francesco Baracca e quelli come lui che si erano messi a copiare gli uccelli e a volare nel cielo con quelle diavolerie e avevano fatto impazzire i mesi e le stagioni. Lui aveva fatto la guerra e li aveva visti coi suoi occhi.

  • Kàglio i mànasu na se clazzi para o ìglio tu martìu na se vazzi– disse ’Mpari Leu.
  • Megghju to’ mamma mi ti ciangi ca lu suli di marzu mi ti tingi – tradusse ’Mpari Micu per Don Cosimuzzu.
  • Kàglio i mànasu na se clazzi para sto marti na pai na scazzi – aggiunse ’Mpari ’Ndria.
  • Megghju to’ mamma mi ti ciangi ca a marzu mi vai mi zappi – ritradusse ’Mpari Micu.

Ma Don Cosimuzzu non era tipo da lasciarsi intenerire dai proverbi: da sotto la quercia continuava a impartire ordini agli uomini sudati. Lui non sudava: chi comanda non suda. Tutt’al più gli sudava la lingua, ma nemmeno tanto ché il parlare è arte leggera. È più probabile, invece, che fosse l’acquolina a bagnargli la lingua ché già aveva steso la tovaglia e tra pochi minuti ci sarebbe stata la pausa per il pranzo.

Sulla tovaglia c’era: pane bianco, capicollo, formaggio, uova sode, olive e cipolle. Il ragazzo aspettava che si servisse per primo il padrone e intanto inghiottiva saliva davanti a tutto quel ben di Dio che a casa sua non si era mai visto. Ma quel ben di Dio, Don Cosimuzzu, l’aveva portato soltanto per ben figurare e far vedere che li sapeva fare i doveri.

In realtà gli doleva il cuore a spartirlo a quei quattro tamarri. E così prese pane e cipolla e cominciò a mangiare esclamando: “Ah, che è buona questa cipolla!” “Quanto mi piace pane e cipolla!” “E quanto fa bene alla salute! Dicano quel che vogliono, ma non c’è niente meglio della cipolla!”.

Pensava, quell’avaraccio, che se mangiava pane e cipolla lui, lu Gnuri, nessuno si sarebbe azzardato a toccare qualcos’altro.

E infatti, deluso sino alle lagrime, il ragazzino, per educazione, allungò la mano per prendere una cipolla pure lui.

Il padre gli appioppò un ceffone che gli fece cadere la berrettella:

  • Tordone, lo so che esci pazzo per le cipolle, ma non hai sentito quanto piacciono allo Gnuri?! E allora lasciagliele a lui, scostumato, e tu arrangiati come puoi con formaggio e capicollo, santudià!